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Il potere invisibile delle piattaforme digitali e la sfida della democrazia

Il futuro digitale non può essere solo algoritmico

Luca Tomassini

Internet nacque come uno spazio di libertà. Un territorio orizzontale, aperto, capace di connettere persone, culture e conoscenze senza filtri. Per chi, come me, ha vissuto gli anni pionieristici della rete, era difficile immaginare che, nel giro di due decenni, quell’ecosistema si sarebbe trasformato in una struttura rigidamente verticale, dove il potere è concentrato nelle mani di pochi. Oggi, le grandi piattaforme digitali — i nuovi imperi dell’informazione — definiscono non solo come comunichiamo, ma cosa pensiamo, cosa vediamo e cosa sappiamo.

Queste imprese hanno oltrepassato il confine dell’economia per entrare nel cuore stesso della politica e della cultura. Non sono più semplici intermediari tecnologici: sono attori sistemici, capaci di influenzare mercati, campagne elettorali, scelte di consumo e, di fatto, il funzionamento stesso della società. I loro algoritmi non si limitano a organizzare i contenuti: li ordinano secondo priorità invisibili, calibrate sul profitto, sulla profilazione e sul condizionamento dell’attenzione.

In apparenza, ci offrono servizi efficienti, gratuiti, personalizzati. In realtà, ci inseriscono in un sistema di economia del controllo dei dati: un meccanismo sofisticato che osserva, misura e anticipa ogni nostra azione, traducendo i comportamenti in valore economico e potere informativo. Ogni clic, ogni ricerca, ogni acquisto alimenta modelli predittivi che non servono solo a venderci pubblicità, ma a orientarci — dolcemente e continuamente — verso direzioni desiderate da altri.

Questo modello economico ha trasformato la rete da spazio di libertà a infrastruttura di sorveglianza consensuale. Non siamo costretti: collaboriamo, spesso inconsapevolmente, alla costruzione di un sistema che analizza e prevede le nostre abitudini meglio di quanto riusciamo a farlo noi stessi. L’innovazione, invece di ampliare le opportunità, tende a ridurle dentro recinti chiusi, ecosistemi proprietari, “giardini digitali” dove la concorrenza non è più possibile e la pluralità si dissolve nell’omologazione.

Nel frattempo, la concorrenza si è trasformata in dipendenza. Le piattaforme che controllano infrastrutture, pubblicità, cloud e intelligenza artificiale sono oggi indispensabili per qualsiasi impresa o istituzione. Le startup non sfidano più i giganti: vengono acquisite. I media non dialogano con loro: subiscono le loro regole. Persino gli Stati, per gestire la transizione digitale, si affidano spesso alle stesse aziende che dovrebbero regolamentare. È una asimmetria di potere senza precedenti, che mette in discussione la sovranità economica e informativa delle democrazie moderne.

Eppure, il problema non è la tecnologia in sé. La tecnologia è neutra fino a quando la società non le attribuisce un disegno, un significato, un’etica. Oggi manca proprio questo: una visione etica della tecnologia.

Abbiamo costruito sistemi intelligenti senza chiederci se siano anche giusti, efficienti senza domandarci se siano equi, onnipresenti senza domandarci se siano legittimi. Il risultato è una cultura digitale che misura tutto, ma comprende poco.

Nel mondo dei dati, il potere non si dichiara: si esercita.

Le piattaforme decidono cosa mostrare, a chi e quando, modulando le emozioni e polarizzando i discorsi. La democrazia, che vive di pluralismo, confronto e responsabilità, si ritrova così a operare in un ambiente che favorisce la velocità, l’emotività e la frammentazione. La rete non è più un’agorà, ma un’arena. E in un’arena, chi controlla la luce decide chi appare e chi scompare.

Riconquistare la rete significa allora restituire trasparenza e sovranità a cittadini e istituzioni. Significa pretendere interoperabilità, concorrenza reale, e meccanismi che impediscano l’abuso del potere informativo. Ma significa anche cambiare mentalità: comprendere che i dati non sono solo un bene economico, bensì una forma di identità collettiva, un patrimonio culturale che va difeso come si difendono le risorse naturali.

Occorre investire in piattaforme aperte, europee, fondate su principi di trasparenza e responsabilità sociale. Non per protezionismo, ma per equilibrio. Non per isolarsi, ma per garantire pluralità e indipendenza. L’innovazione può e deve essere compatibile con la libertà; ma questo richiede regole nuove, cultura digitale diffusa e una classe dirigente consapevole del valore politico della tecnologia.

Internet è ancora un territorio di possibilità. Ma senza una guida, rischia di diventare un sistema chiuso, governato da poteri invisibili che non rispondono a nessuno.

Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale per la rete — un equilibrio tra efficienza e diritti, tra creatività e responsabilità, tra progresso e umanità.

Il futuro digitale non può essere solo algoritmico.

Deve tornare ad essere umano.

Luca Tomassini 30 ottobre 2025
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