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L’innovazione non è neutrale

La geopolitica è tornata al centro della tecnologia: ignorarla significa costruire nel vuoto

Luca Tomassini

In un’epoca di intelligenze artificiali, chip e nuove sovranità tecnologiche, la geopolitica è tornata al centro dell’innovazione. Ignorarla significa costruire nel vuoto.

L’innovazione non vive più in un vuoto asettico, fatto solo di idee, algoritmi e mercati. Oggi ogni progetto nasce e cresce dentro una rete complessa di poteri, alleanze, risorse e fragilità globali. La geopolitica — che per anni era rimasta un tema da analisti e diplomatici — è diventata una variabile decisiva anche per chi progetta il futuro. La tecnologia non è più solo un mezzo di progresso: è lo strumento attraverso cui si esercita influenza, si difendono interessi, si disegnano nuovi equilibri globali. Ignorarlo significa rischiare di innovare nel vuoto, costruendo soluzioni brillanti ma esposte a un mondo che cambia più in fretta dei loro modelli di business.

La globalizzazione che aveva promesso un pianeta connesso, interdipendente e libero da barriere si sta riconfigurando. La produzione torna vicina ai centri decisionali, la ricerca si concentra in pochi ecosistemi, l’accesso alle risorse tecnologiche viene filtrato da logiche di sicurezza e di controllo. Il mito del mondo “piatto” — dove bastava avere un’idea per poterla scalare ovunque — si è incrinato. Oggi innovare significa anche scegliere da che parte stare, quali dipendenze accettare, quali rischi assumersi.

Le imprese che guardano avanti sanno che la geopolitica è ormai parte integrante della strategia industriale. Non si può più pianificare un prodotto, una filiera o un mercato senza considerare dove e come quella tecnologia verrà accolta, regolata o limitata. Un cambiamento nelle politiche di esportazione, un conflitto regionale, una nuova sanzione o una crisi energetica possono modificare nel giro di pochi mesi intere catene di valore. È accaduto con i semiconduttori, con le batterie, con le reti 5G, e sta accadendo con l’intelligenza artificiale.

La tecnologia è potere, e come ogni forma di potere tende a essere contesa. Per questo gli Stati tornano a giocare un ruolo attivo nel definire le traiettorie dell’innovazione. Investono, proteggono, vietano, incentivano. I governi non sono più solo regolatori, ma attori industriali veri e propri. E in questa partita, chi innova deve imparare a leggere il linguaggio della politica e della diplomazia con la stessa attenzione con cui studia un algoritmo o un modello di mercato.

Ogni impresa, anche la più piccola, si trova immersa in questa nuova geografia del rischio. La scelta di un partner tecnologico, di un cloud provider, di un centro di ricerca o di un investitore non è mai neutrale. Ogni decisione porta con sé una traiettoria, una dipendenza, una possibile vulnerabilità. E mentre la tecnologia avanza a ritmo esponenziale, le regole che la governano cambiano di continuo, spostando gli equilibri di potere in modi difficili da prevedere.

Serve quindi una nuova cultura dell’innovazione: meno ingenua, più consapevole, capace di integrare la complessità del mondo reale. Non basta chiedersi se un’idea è tecnicamente fattibile o economicamente sostenibile. Bisogna domandarsi anche se è geopoliticamente solida, se può resistere a shock esterni, se è costruita su basi autonome o su infrastrutture che qualcun altro controlla. La sostenibilità geopolitica diventa così parte integrante della sostenibilità complessiva: non è solo una questione ambientale o sociale, ma di stabilità e indipendenza.

L’Europa, e l’Italia in particolare, hanno davanti una scelta cruciale. 

Possono continuare a dipendere da ecosistemi tecnologici esterni — più rapidi, più aggressivi, più verticalmente integrati — oppure costruire una propria identità industriale, fondata su competenze, infrastrutture e capacità produttive. Significa investire nella ricerca, nelle filiere, nei talenti. 

Significa anche avere una visione politica: sapere che l’innovazione non è solo crescita economica, ma anche sovranità culturale e tecnologica.

Chi innova oggi non può permettersi di restare cieco davanti alle mappe del potere. Ogni chip prodotto, ogni linea di codice scritta, ogni brevetto depositato contribuisce a definire i nuovi confini del mondo. E quei confini si spostano ogni giorno, invisibili ma realissimi, tracciati da chi controlla energia, dati e conoscenza.

Innovare, dunque, non è più solo inventare. È comprendere. 

È scegliere in quale direzione spingere il futuro, e con chi farlo. È costruire soluzioni che non si limitino a funzionare, ma che possano resistere. Perché il futuro non apparterrà soltanto a chi avrà le migliori idee, ma a chi saprà farle sopravvivere dentro la complessità del mondo che stiamo costruendo.

Luca Tomassini 26 ottobre 2025
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