Il problema è che noi ancora non sappiamo esattamente che cosa sia davvero la nostra coscienza. E come facciamo, allora, a sostenere con la massima certezza che non sarà mai replicabile da una macchina?
Come dicono alcuni scienziati, la coscienza potrebbe consistere in un collassare di certe funzioni all’interno dei neuroni? E sarebbe quindi il “semplice” risultato di una particolare scarica elettrochimica che avviene decine e decine di volte nel nostro cervello, durante il giorno?
Se fosse così, è davvero impossibile che riusciremo, anche a breve, ad averne un modello fisico/matematico? E una volta messo sulla carta il modello, che cosa ci impedirebbe di tentarne una “cultura” artificiale, come si fa con i tessuti organici?
Sempre restando in tema di catastrofi prossime venture, e di ibridi uomo/macchina destinati a soppiantarci, viene in mente il mito del superuomo, dell’oltre-uomo, quello di una nuova civiltà a venire, che non è poi così lontana (pur rivolta in altra direzione) dalle leggende del mondo antico su Atlantide, sede di una civiltà ultratecnologica scomparsa, o da quelle teorie che sostengono, per esempio, essere state le Piramidi costruite da una civiltà extraterrestre molto superiore alla nostra.
In questo atteggiamento, noto una certa tendenza ad allontanare dalla sfera dell’umanità quello che più propriamente la definisce: l’incredibile capacità di manipolazione della realtà. Gli esiti di questo nostro millenario trafficare con le cose non sono totalmente prevedibili (anche se immaginabili), principalmente perché l’uomo è dotato di una sorta di visione a lungo raggio e può quindi creare cose e realtà che la natura, di per sé, non sarebbe in grado di produrre. Questa capacità può anche portare (come sta facendo) all’apparizione di forme tecnologiche sbalorditive, che l’intelligenza, per istinto di conservazione, sente il bisogno di allontanare da sé.
L’essere umano vive quindi, da sempre, una duplicità fondamentale: una sorta di timidezza rispetto alle proprie possibilità, unita ad una opposta capacità di superare quasi ogni limite. Allora, quello che l’uomo ostinatamente analogico non vede, e non potrebbe mai ammettere, sta proprio in questi termini: è il fatto che nemmeno lui può evitare di essere almeno un pochino digitale.
Ormai, non esiste più il problema di essere pro o contro le tecnologie.
L’appartenenza alla nuova realtà non si pone più (o quasi più) come un’imposizione, un’incomprensibile difficoltà e complicazione. Anche coloro che criticano il nuovo mondo, infatti, lanciando invettive e dipingendo scenari apocalittici sul futuro dell’umanità, lavorano quasi sempre attraverso la rete, sui social network, sui blog, sui forum, su YouTube; navigano nel deep-web.
L’uomo analogico non si accorge neanche di essere già digitale. Una delle possibili cause che rende sospettosa una parte dell’umanità sull’utilizzo e la diffusione delle nuove tecnologie è dovuta, forse, alla comprensione (o incomprensione) del loro funzionamento. Si fa spesso l’esempio dei nostri vecchi che erano in grado di riparare in quattro e quattr’otto un guasto al motore della loro automobile, mentre oggi non si riesce nemmeno più a cambiare le candele.
Allora, se l’utilizzo dei dispositivi si fa sempre più intuitivo e immediato, (anche nei computer i vecchi software sono stati quasi tutti sostituiti con applicazioni che non hanno più bisogno della procedura d’installazione), ciò che sta sotto all’innovazione, il procedimento che porta alla costruzione delle tecnologie si fa sempre più complesso ed elaborato. Prendiamo ancora una volta un esempio tratto dal mondo della fisica, un campo della scienza che studia la realtà al suo livello più essenziale.
Almeno all’apparenza, essa appare un terreno d’indagine molto più complicato e oscuro di quanto poteva essere la fisica classica. Le sue formule, complicatissime e cerebrali, descrivono processi che addirittura non sembrano avere nulla a che fare con la realtà “vera”. Sentir parlare di particelle Tau, leptoni, adroni, bosoni, barioni, ecc. ci affascina, in realtà, soltanto perché qualcuno che consideriamo importante (un cosiddetto “cervellone”) ci dice che queste cose cambieranno il mondo.
Ma, se togliamo per un attimo dal gioco la legittimazione che, nell’opinione pubblica, queste ricerche ricevono dalla garanzia di una “grande mente”, e le guardiamo direttamente in faccia, non ne capiremmo un accidente e sembrerebbe di leggere gli appunti di un pazzo. Questo discorso mette in campo una questione fondamentale, del presente e soprattutto del futuro prossimo, ovvero l’indispensabile fiducia reciproca tra esseri umani, nel rispetto delle competenze specifiche di ognuno.
Fidarci dello scienziato (e questo, tradotto in termini effettivi, di gestione, significa metterlo in condizioni ottimali per sviluppare le proprie ricerche) vuol dire sentirsi parte dell’umanità. È un esempio come un altro.
Ma la collaborazione tra le competenze fa sì che ci si incammini direttamente verso la creazione di una vera globalizzazione tecnologica responsabile. Ci saranno sempre delle resistenze. Ci sono state in passato di fronte ad ogni cambiamento epocale. Una situazione simile, per esempio, l’abbiamo vissuta in quel passaggio dall’Impero Romano al mondo cristiano, che ha consentito l’introduzione di una nuova civiltà nel corpo di una già esistente.
All’inizio, la nuova cultura importata dall’oriente venne percepita come un corpo estraneo, addirittura pericoloso per la tenuta del mondo. Ai cristiani vennero addossate colpe che non avevano, come l’incendio di Roma. Ma il processo di trasformazione era ormai in atto. Successe allora che il cristianesimo si diffuse in larghi strati della popolazione, nonostante tutto, nonostante le persecuzioni e, dal basso, risalendo verso la cima, mutò il paradigma della cultura e della società, dando vita a quella che sarebbe poi stata definita come Cristianità medievale. Il mondo tecnologico, per fortuna, ha di base le stesse caratteristiche dell’economia capitalista. Possiede un’innata capacità di inglobare anche le spinte che gli sarebbero più avverse, compreso ciò che mira a destabilizzarlo o a destituirne i protagonisti principali.
La sua progressione mette in conto una serie di crisi e crolli inevitabili, che sono parte integrante del sistema. Ma, per lo meno, fino a oggi, esso si è dimostrato in grado di reggere a ogni urto, di qualunque entità, di risollevarsi dopo ogni caduta. E questo proprio perché è una dimensione impostata sullo scambio, sulla relazione, e quindi sulla continua modulazione degli elementi che la compongono.
All’uomo fieramente “analogico” io dico quindi: anche tu puoi cogliere la tua occasione nel mondo di oggi. Non buttare il tuo tempo! Non sprecare il tuo futuro! Prima o poi, volenti o nolenti, se non vogliamo prendere i voti e trasferirci in un eremo (dove, tra l’altro, l’uso di Internet è da molti anni consentito), i conti con il digitale andranno fatti.
Si rischia, altrimenti, di rimanere davvero all’età della pietra.
Qualche anno fa c’era una serie TV americana, Numb3rs, nella quale Charlie Eppes, giovanissimo genio della matematica, aiutava il fratello, agente dell’FBI, a risolvere i crimini analizzando i dati tramite sistemi di calcolo, ovvero algoritmi. In questo modo egli riusciva sempre a essere un passo avanti rispetto agli altri poliziotti che si affidavano ai metodi tradizionali d’indagine.
Mondo analogico, diremmo, a confronto con mondo digitale. Per concludere, voglio far presente come la velocità di sviluppo delle nuove tecnologie porti gli stessi ritrovati della tecnica ad uscire rapidamente dal giro, e a diventare improvvisamente obsoleti.
Ad alcuni, un computer può sembrare un dispositivo all’avanguardia, sintesi delle nuove frontiere tecnologiche; ma ci sono persone, ad esempio tra i più giovani, perfettamente inserite nel mondo digitale, che potrebbero non averne mai posseduto uno.
Alla fine del 2017 Apple ha diffuso uno spot per promuovere l’uscita dell’iPad PRO. Ne è protagonista una bambina che, attraversando la città in bicicletta con il suo nuovo dispositivo, parla con gli amici in videochiamata, scatta still che poi modifica in tempo reale e rinvia al mittente, scrive, disegna, legge. Alla fine, mentre è sdraiata sul prato, davanti al piccolo schermo dalle mille capacità, la vicina di casa le chiede: cosa fai al computer? E la bimba risponde: cos’è un computer?
Le mie due figlie, come amo dire, cresciute a pane e computer, sono un altro esempio. Quando regalai loro i primi portatili, mi premunii di disabilitare la connessione ad internet. Loro, in un battibaleno: “Se un computer non è connesso alla rete è solo un oggetto inutile.”