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Il principio di realtà nel digitale

Meno segmentazione opaca, più regole chiare: una rete che rende verificabile il confronto.

Luca Tomassini

Per anni abbiamo associato il digitale a più partecipazione, più trasparenza, più controllo diffuso. Quell’aspettativa non era una fantasia: comunità open source, enciclopedie collaborative, mobilitazioni civiche nate online hanno mostrato che una rete capace di ridurre i costi di coordinamento può generare valore pubblico. 

Poi, senza un momento preciso di svolta, la traiettoria si è spostata: dal web dei progetti condivisi all’ecosistema delle piattaforme che massimizzano l’attenzione. La combinazione di smartphone sempre in tasca, pubblicità come motore economico e raccomandazioni algoritmiche ha prodotto un ambiente dove l’ingaggio diventa metrica regina. Non c’è un “grande trucco” dietro: semplicemente, se il ricavo cresce con il tempo trascorso, tutto - dalla progettazione delle interfacce al modo in cui i contenuti vengono messi in coda - viene ottimizzato per trattenerti. 

Il risultato è un circuito in cui ciò che suscita reazioni forti scivola in alto, la complessità perde terreno, gli spazi intermedi si svuotano. La sfera pubblica non si spezza in due, ma in mille canali paralleli, calibrati sul profilo di ciascuno: segmentazione spinta, messaggi su misura, scarsa verificabilità reciproca. In questo contesto la verità è spesso meno competitiva dell’emozione; la reputazione si costruisce a colpi di notifica; il dibattito assomiglia più a un flusso di stimoli che a un processo deliberativo. 

La domanda, allora, non è “chi ha tradito il sogno”, ma come si sono allineati gli incentivi. Le piattaforme inseguono obiettivi misurabili, gli inserzionisti comprano attenzione, i creatori si adattano alla domanda di velocità e intensità. Gli utenti, comprensibilmente, seguono scorciatoie cognitive che hanno accompagnato l’uomo da sempre: conferma, novità, indignazione. 

Se metti insieme questi fattori, ottieni una macchina che non ottimizza per il vero o per l’utile, ma per ciò che mantiene vivo il flusso. Eppure la rete conserva anticorpi reali. In ogni crisi vediamo nascere pratiche di cooperazione che aggirano i colli di bottiglia informativi; l’infrastruttura distribuita consente ancora di documentare, organizzare, correggere. 

A mio modo di vedere serve spostare di qualche grado il baricentro. 

Da dove si ricomincia, senza moralismi e senza nostalgie? Intanto riconoscendo che la scelta del “motore” che ordina i contenuti è una questione civile, non solo tecnica. La possibilità di capire perché vediamo ciò che vediamo e di selezionare criteri alternativi (cronologia, prossimità, qualità verificata, fonti dichiarate) non è un vezzo per smanettoni: è il modo per rimettere nelle mani delle persone un pezzo di regia. 

Sul versante politico, la microprofilazione dei messaggi che incidono sul processo democratico merita molta attenzione: se la pubblicità elettorale diventa un sussurro diverso per ogni segmento, il confronto pubblico si fa intraducibile. Allo stesso tempo, la portabilità dei dati e delle relazioni deve essere reale; se posso trasferire contatti, archivio e reputazione, l’uscita da una piattaforma non equivale a perdere cittadinanza digitale, e la concorrenza si fa sul servizio, non sulla cattività. 

C’è poi la questione della velocità. Non tutto deve accelerare: introdurre attriti quando un contenuto esplode non è censura, è manutenzione del campo da gioco. Gli indicatori di affidabilità possono entrare davvero nei sistemi di ranking, a patto che siano indipendenti e verificabili; e i cambiamenti degli algoritmi che spostano miliardi di impression andrebbero accompagnati da report pubblici sugli effetti, come si fa per le politiche che toccano la collettività. 

Infine, serve pluralità di modelli economici: se tutto dipende dal costo per mille, la produzione di qualità parte svantaggiata. Abbonamenti, sostegno filantropico per l’informazione locale, fondi dedicati a progetti di interesse generale non sono scorciatoie, sono ammortizzatori che consentono a ciò che richiede tempo di competere con ciò che richiede solo rumore. 

Non è necessario tornare all’infanzia della rete per raddrizzare la rotta. È sufficiente cambiare alcuni incentivi, pretendere strumenti di controllo comprensibili, scegliere spazi che premiano la cura invece della frenesia, sostenere economicamente ciò che ha bisogno di lentezza. 

La tecnologia non garantisce da sola progresso civile; può però amplificarlo se chi progetta, chi regola e chi usa si danno obiettivi compatibili. Il futuro non si aggiusta con un post: si ricostruisce con una serie di piccole decisioni coerenti. Se iniziamo a prenderle, la rete smette di essere un ambiente che ci divide e torna a essere un’infrastruttura che ci permette di costruire insieme.

Luca Tomassini 16 ottobre 2025
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