Il futuro è un algoritmo

Ci hanno provato stregoni, sciamani, profeti.

L’essere umano è da sempre alla ricerca di un metodo miracoloso, di un incantesimo, che gli permetta di studiare e interpretare il presente e, di conseguenza, di prevedere in qualche modo il futuro stesso.

Ci hanno provato stregoni, sciamani, profeti.

Lo fa (in qualche modo) il nostro medico di base quando, analizzando la nostra situazione attuale, i nostri comportamenti (in special modo quelli nocivi alla nostra salute) più vari altri parametri, tenta di individuare possibili conseguenze finali, di prevedere quale sarà la nostra condizione in futuro e di trovare i giusti rimedi o le giuste precauzioni, attraverso l’analisi e la ricerca di analogie e connessioni tra una moltitudine di informazioni. 

Lo fanno gli esperti di marketing, più o meno allo stesso modo, mentre analizzano i dati raccolti per capire quale strade sia meglio percorrere per le loro future campagne o per lanciare nuovi prodotti o per crearne altri che ancora non sono sul mercato.

Lo fanno i politici nel momento in cui, con i dati raccolti dai loro staff di analisti ed esperti del digitale, cercano di capire quale strategie comunicative intraprendere per recuperare la percentuale più alta possibile di consensi, magari proprio durante una imminente campagna elettorale.

I social media si sono diffusi e, benché non abbiano ancora sostituito i più classici dibattiti televisivi, è indubbio che si sono aggiunti a quel teatro scenico in cui il politico riversa la sua comunicazione a piccole dosi a seconda delle circostanze. La campagna elettorale del 2018 non è stata la prima, in Italia, in cui i partiti hanno sfruttato prepotentemente l’ambiente virtuale dei social media per raccogliere consensi.

La campagna elettorale di Obama del 2008 ha sfruttato enormemente le potenzialità dell’era digitale con strategie mirate all’interno dei social media. Dal celebre slogan “Yes we can” all’utilizzo di Twitter come principale social media di comunicazione, fino al crowdfunding in rete che ha portato il futuro presidente degli Stati Uniti a raccogliere cifre record per la propria campagna partendo, per così dire, dal basso. Anche qui, nessuna incredibile novità, solo la capacità di sfruttare al meglio i nuovi media e di adattarsi ai tempi; un approccio che, a livello elettorale, ha pagato senza dubbio.

Kennedy, negli anni Cinquanta, utilizzò la televisione e in molti ritennero che ad aver vinto fu prima di tutto il personaggio Kennedy, capace di essere “moderno” e di mettersi facilmente in contatto con le persone, e soprattutto in grado di sfruttare al meglio i nuovi mezzi di comunicazioni di massa, e poi il politico.

Barack Obama si è semplicemente “adattato” ai tempi e ha sfruttato al meglio i nuovi media, anche grazie a un selezionato staff di persone competenti in ambito digitale. Inoltre Obama ha anche utilizzato in maniera massiccia il machine learning. E in questo, se non il primo in assoluto, è stato indubbiamente il migliore.

Il suo successore Donald Trump è riuscito ad andare oltre, o meglio, la sua campagna elettorale, sfruttando quella che può essere vista come una forma di chiaroveggenza tutt’altro che soprannaturale: gli algoritmi. Questo è valso anche in altre campagne fondamentali quali il Brexit in Gran Bretagna.

Ecco, in tutti questi casi, quando si parla di machine learning e raccolta dei dati, stiamo parlando fondamentalmente di algoritmi.

Ma cos’è esattamente un algoritmo, sia nella sua accezione generale che all’interno del nuovo mondo digitale? L’origine del termine “algoritmo” ha una sua storia, piuttosto curiosa fra l’altro, perché non riguarda soltanto la matematica. Nel cuore dell’Asia persiana oggi corrispondente alla regione del Khorezm in Uzbekistan, nasce Muhammad ibn Musa al-Khwarizmi, un matematico vissuto tra l'VIII e il IX secolo.

In Europa era uso comune, fra i letterati, tradurre i nomi degli autori arabi in latino.

Nel caso del matematico persiano, il nisba (un aggettivo che si pone alla fine nell'onomastica araba e che indica la regione geografica di provenienza della persona) del matematico, ovvero “al-Khwarizmi” verrà latinizzato in “Algoritmi”, per tradurre il titolo della sua opera più importante: “Algoritmi de numero Indorum”. In italiano il titolo diventa (o sarebbe diventato) “al-Khwarizmi (discute) sui numeri indiani”.

Avete presente l'addizione in colonna? Quella che abbiamo imparato tutti in prima elementare. Si allineano le cifre da sommare da destra verso sinistra, partendo della colonna delle unità, poi delle decine, poi delle centinaia, poi delle migliaia eccetera, e si sommano le singole cifre sempre partendo da destra ed eventualmente “riportando” l'eccesso di una singola colonna (il resto) come ulteriore cifra da sommare alla colonna successiva, verso sinistra. L'addizione: la più facile delle quattro operazioni elementari dell'aritmetica. Resa ancora più facile da al-Khwarizmi. Poiché è stato proprio il matematico persiano a regalarci l'idea di effettuare l'addizione nella modalità in colonna sopra citata. L'addizione in colonna può essere considerato uno dei primi algoritmi della storia. E al-Khwarizmi non poteva sapere che 1200 anni dopo noi lo avremmo ricordato non soltanto per questo, ma anche per aver dato involontariamente origine a un termine - algoritmo - che nel mondo di oggi ha assunto un ruolo importantissimo e rivoluzionario. Un ruolo che, forse, non tutti ancora conoscono a sufficienza, per i risvolti che ha nella nostra vita quotidiana.


Come abbiamo potuto vedere con l'esempio dell'addizione in colonna, un algoritmo è un procedimento che ci consente di arrivare a un risultato (o alla risoluzione di un problema) attraverso una serie di calcoli basati (potremmo dire “ispirati”, ma in realtà il rigore e la precisione negli algoritmi è fondamentale) su degli ordini e delle condizioni specifiche che noi abbiamo impostato precedentemente. Questi elementi iniziali (ordini e condizioni) sono detti input. Il risultato che vogliamo raggiungere e che possiamo stabilire anch’esso a priori è l’output. Algoritmi di questo tipo vengono utilizzati quotidianamente da tutti noi che navighiamo nel web.

Alcuni vengono utilizzati coscientemente, altri in maniera inconsapevole, forse.

Un esempio su tutti è l'algoritmo di Facebook: tra le centinaia o migliaia di post che potenzialmente potrebbero spuntare nella nostra bacheca, noi ne vediamo solo una piccola parte, “selezionata” dall'algoritmo di Zuckerberg in base ad alcuni fattori, tra cui (ma non solo) le nostre abitudini di gradimento sul social network.

Altri fattori possono riguardare le sponsorizzazioni a pagamento attive sul sito. Facebook tra l'altro è alla costante ricerca di migliorie in questo senso, nel tentativo di dare meno spazio ad esempio ai contenuti spam, ma c’è ancora molto lavoro da fare in questo senso.
Abbiamo già parlato delle potenzialità del machine learning (che può essere definita una branca dell’intelligenza artificiale) e degli algoritmi di apprendimento, quegli algoritmi che usufruiscono di dati inseriti dall'essere umano (input) “imparando” a svolgere una determinata funzione.

Gli algoritmi di apprendimento possono essere di due tipi: gli algoritmi di apprendimento supervisionato (quando cioè siamo noi a determinare all'inizio il tipo di risultato che la macchina ci offrirà attraverso l'elaborazione dei dati con l'inserimento come input di una logica di classificazione dei dati ben precisa) e gli algoritmi di apprendimento non supervisionato (quando non siamo noi a scegliere il risultato ma lasciamo alla macchina la libertà di rintracciare, all'interno dei dati, possibili analogie utili alla produzione di un risultato inatteso).

Se l'idea di un algoritmo di apprendimento non supervisionato vi spaventa e vi rimanda con la mente a scenari apocalittici come quelli di Terminator o di altre vicissitudini fantasiose in cui una crudele intelligenza artificiale, preso possesso di una libertà eccessiva, decide un bel mattino di soggiogare la razza umana, siete fuori strada: ogni giorno la stragrande maggioranza di noi utilizza diversi algoritmi di apprendimento non supervisionato e lo fa con estrema naturalezza, senza che il mondo salti in aria e senza che l’essere umano si risvegli prigioniero all’interno di Matrix.

Un algoritmo di apprendimento non supervisionato è, per esempio, proprio quello di Google. Nel 1998, Larry Page e Sergey Brin hanno creato un algoritmo che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di effettuare ricerche, con risultati decisamente migliori di quelli degli altri motori di ricerca maggiormente utilizzati fino a quel momento come Yahoo e Altervista.

L’intuizione di quelli che, all’epoca, erano soltanto due studenti di Stanford, fu quella di teorizzare l’efficacia di un approccio basato su un’analisi matematica delle relazioni tra i siti Internet. Un’intuizione vincente. È indubbio che, nonostante gli innumerevoli benefici che la rivoluzione degli algoritmi ha portato con sé, molte persone sono ancora spaventate all’idea di essere in qualche modo “studiate”, di far parte di un insieme di dati che vengono elaborati costantemente dalle macchine.


L’NSA raccoglie dati e i suoi algoritmi lavorano per garantire la sicurezza nazionale.
Anche in questo caso una delle problematiche che viene sollevata è quella relativa alla privacy. Ma siamo sicuri che certi metodi di raccolta ed elaborazione dati siano una novità appartenente alla generazione digitale? In realtà certe “abitudini” sono sempre esistite. Ciò che sta cambiando, semmai, è la quantità e la qualità delle informazioni raccolte e il modo in cui queste vengono elaborate. Anche parlando di marketing, gli studi e i sondaggi che avevano lo scopo di decifrare il mercato sono non sono una novità. Anche in passato le persone venivano trasformate in “dati”, in numeri da analizzare. Solo che l’analisi veniva condotta esclusivamente da altri esseri umani e richiedeva più tempo.

Qualcuno potrebbe obiettare che il vero problema, oggi, è che questo avviene in maniera inconsapevole, ma ciò non è del tutto vero. Nel momento in cui ci esponiamo all’interno del mondo virtuale, per esempio iscrivendoci su un social network e interagendo all’interno di esso, tutti noi inseriamo informazioni e dati sensibili e ci espongono in maniera diretta.

Pensiamo agli interventi in cui esprimiamo pubblicamente dei pareri personali, o le canzoni che decidiamo di condividere con i nostri amici virtuale. Sono tutte azioni di cui siamo consapevoli. L’errore di fondo, forse, siamo noi stessi a commetterlo nel momento in cui consideriamo l’ambiente digitale come qualcosa di estraneo, un mondo a parte e distante dall’ambiente reale (lo stesso errore di percezione che porta, spesso, al cyberbullismo, ovvero credere che un errore commesso all’interno di un ambiente virtuale, come una dichiarazione errata o un’azione negativa ai danni di un’altra persona, non abbia nessuna conseguenza nel mondo reale). Essere al centro di certe elaborazioni e analisi non è una novità. La differenza rispetto al passato è che oggi gli algoritmi lavorano in maniera più precisa, con un margine di errore inferiore.

Le macchine svolgono poi la stessa funzione che un tempo svolgeva l’essere umano, ma impiegando una quantità di tempo inferiore di milioni di volte. Gli stessi algoritmi che vediamo come minacce per la nostra privacy sono poi accessibili anche a noi, attraverso strumenti quali, per citare un esempio banale e semplice da utilizzare, le sponsorizzazioni a pagamento su Facebook. Gli acquisti in rete sono una scelta consapevole. Siamo noi a scegliere, ad esempio, di utilizzare Amazon per i nostri acquisti, così da risparmiare tempo e, molto spesso, anche denaro. Anche Amazon ha un suo algoritmo che “lavora” per offrirci gli acquisti migliori in base alle nostre abitudini e alle nostre preferenze. Anche questo non rappresenta una novità; l’idea è vecchia, cambiano però il modo in cui si arriva allo stesso risultato e gli strumenti utilizzati.

Nell’ambito delle notizie, e in un’era in cui l’informazione abbonda, il problema non è più ottenere una notizia, ma saper discernere ad esempio tra notizie reali e fake news, o ancora rintracciare le notizie che ci interessano. Oggi determinati algoritmi ci permettono di seguire le notizie più utili per noi: siete studiosi o semplici amanti della tecnologia? Grazie all’algoritmo potrete trovare più facilmente news legate al mondo del digitale e delle innovazioni tecnologiche.

Siete dei medici e volete essere informati sulle ultime notizie nell’ambito della ricerca medica? Anche in questo caso sarà più facile per voi avere accesso a un certo tipo di notizie. Un altro esempio dell’utilità degli algoritmi di apprendimento all’interno della vita quotidiana può essere quello delle radio “programmate” e “personalizzabili”.

Pandora Internet Radio è una web radio statunitense che sfrutta il Music Genome Project per offrire all'ascoltatore una playlist costantemente aggiornata e programmata per seguire i suoi specifici gusti. All'utente del servizio, dopo la scelta di un brano di partenza, vengono fatte ascoltare canzoni simili secondo l'algoritmo di Pandora. Inoltre è possibile esprimere il gradimento per un brano o, viceversa, non gradirne un altro, in modo da migliorare (e personalizzare ulteriormente) il servizio offerto da Pandora.

Gli elementi tenuti in considerazione dall'algoritmo sono più di 400, e vanno da un testo malinconico a canzoni influenzate da altri genere (per esempio un brano elettronico influenzato dalla musica blues), dalla tonalità della voce dell'artista all'utilizzo di un particolare strumento in un assolo. La stessa funzione che potrebbe svolgere uno staff esperto in campo musicale, ma che impiegherebbe molto più tempo per creare una playlist “su misura”.

Tutto questo ha maggior valore poiché viviamo in un’epoca dove i mercati sono caratterizzati da una scelta ampia come mai prima nella storia. Una risorsa di questo tipo aiuta sia il venditore che l’acquirente. Quello che ci prospetta il futuro è molto di più di un semplice algoritmo che semplifica l’acquisto di un libro o di un capo d’abbigliamento su uno store digitale.

Oggi, finalmente, la scienza può realmente affrontare la sfida di prevedere il futuro (o di andarci il più vicino possibile) in maniera credibile. E può farlo in campi fondamentali quali la medicina.

Già alcuni algoritmi sono in grado, attraverso lo studio delle informazioni contenute nelle nostre cartelle cliniche, di prevedere determinati disturbi e problemi gravi, ad esempio cardiaci. Un altro algoritmo è stato messo a punto, dall’Università Cattolica, per aiutare i pazienti che tendono ad abbandonare le terapie, demotivati quando non avvertono di partecipare attivamente alla terapia.

L’utilizzo di algoritmi non va a sostituire l’intuizione umana (non ancora, almeno), semmai va ad aggiungersi a essa, accelerando di molto i tempi e abbassando i costi.

Pensate alle potenzialità di un algoritmo che, in un brevissimo lasso di tempo, è in grado di incrociare informazioni di migliaia o milioni di pazienti; informazioni quali sintomi, abitudini, età eccetera, e di trarre da questi dati una previsione molto più attendibile perché non soggetta a quello che è un naturale e possibilissimo errore umano.

Anche in questo caso, non c’è nulla di nuovo. Lo stesso lavoro è stato portato avanti fino ad oggi dai singoli medici, solo con un dispendio di tempo maggiore e una più naturale inclinazione all’errore umano. Le potenzialità degli algoritmi sono evidenti anche in altri campi. Prendiamo ad esempio il giornalismo. Oggi un algoritmo è già in grado di elaborare notizie partendo dalle informazioni di cui la macchina è a conoscenza.

Il vantaggio di un’informazione di questo tipo risiede anzitutto nell’imparzialità e nell’oggettività dell’informazione stessa. Inoltre, in questo modo si annichilisce la possibilità di banali ma potenzialmente pericolosi errori. Ma qual è il reale potenziale degli algoritmi? Quale futuro ci aspetta e fin dove possiamo sfruttarli per costruire un mondo migliore?

La domanda, con tutte le sue complessità, se la pone Pedro Domingos, scienziato e docente all'Università di Washington. Nel famoso saggio The Master Algorithm, illustra gli enormi passi avanti compiuti nel campo degli algoritmi e prospetta una scienza futura (ma anche presente) capace di farne un uso sempre più efficace. Il maggior auspicio che dà il titolo al suo lavoro è quello di un “algoritmo definitivo” che possa in qualche modo includere tutta la conoscenza del mondo ed elaborarla secondo schemi in grado di prevedere il futuro. L'algoritmo definitivo è visto come il punto di arrivo di tutti gli algoritmi: una formula definitiva per la conoscenza universale del passato, del presente e del futuro. Un algoritmo del genere potrà portare la razza umana, per esempio, a prevenire o curare ogni tipo di malattia, migliorerà la nostra vita sociale e lavorativa e diminuirà il numero di errori.

In ogni caso, questa prospettiva è lungi dall'indicare una supremazia dell'intelligenza artificiale sulla razza umana. Sarà ancora l'uomo a impartire ordini alle macchine e dunque sarà umana la responsabilità e la delicatezza che un tale compito reca con sé.


Ma come si potrà arrivare alla formulazione di un simile algoritmo?Secondo Domingos, ci sono almeno cinque scuole di pensiero, che lui definisce tribes (tribù), che stanno lavorando alla scoperta dell'algoritmo definitivo. Ognuna di queste diverse scuole ha una sua filosofia e un approccio differente alla questione. Le cinque “tribù” (classificati con le denominazioni di simbolisti, connessionisti, evoluzionisti, bayesiani e analogisti) ambiscono alla stessa conquista ma adoperano punti di vista diversi. I simbolisti ragionano per simboli come suggerisce la definizione, dunque hanno un approccio di tipo filosofico, psicologico e logico; per loro l’apprendimento ideale della macchina è l’inverso della deduzione.

I connessionisti prendono ispirazione dalle neuroscienze e dal reverse engineering, l’ingegneria inversa del cervello umano: in altre parole, il bambino che smonta un giocattolo e che, esaminandone le componenti dall’interno e apprendendo la funzione di ogni componente, è capace di rimontare il giocattolo allo stesso modo se non addirittura, come nel caso di alcuni particolari giochi a mattoncino, in un modo nuovo, magari più funzionale alle proprie esigenze.

Gli evoluzionisti vendono nell’evoluzione e nella genetica le basi per gli studi dell’ algoritmo magistrale; in questo caso, la biologia evolutiva crede nello specifico nella potenze dell’evoluzione e nella capacità delle macchine di apprendere grandi quantità di date; in tal senso, l’algoritmo dell’evoluzione della vita umana sulla terra è quello meglio riuscito, laddove l’input iniziale di informazioni contenute, però, è rappresentato dalla vita e dalla morte di tutta la vita passata sulla terra.

I bayesiani sono degli “statisticisti” vogliono portare i due principali teoremi sulle probabilità di Thomas Bayes (un matematico inglese vissuto nel Settecento) al centro della creazione dell’algoritmo definitivo; in un certo senso, il Teorema di Bayes può essere già visto come una sorta di algoritmo definitivo, ma non tutti gli statistici che apprezzano il teorema di Bayes, però, sono convinti che le potenzialità di questo algoritmo possano arrivare a tanto.

Gli analogisti, infine, si basano sulle analogie, viste come determinanti: per trasformarsi nell’algoritmo definitivo, la macchina dovrà apprendere più dati possibili e soprattutto saper riconoscere le somiglianze fra essi, le analogie appunto, così da poterne rintracciare di nuove fino ad arrivare alla conoscenza più completa possibile.

Sempre secondo Domingos, poi, sarà fondamentale una collaborazione fra le varie scuole di pensiero: non ce n’è una che realmente potrà sovrastare le altre, ma ognuna apporterà il suo contributo nella formulazione dell’algoritmo definitivo. Indubbiamente, un’innovazione del genere nell’approccio alle varie attività umane porta con sé anche nuovi problemi con cui è giusto e doveroso confrontarsi. 

Non è la prima volta che questo accade. Il cambiamento porta sempre una sequenza di nuove problematiche che il genere umano deve affrontare. È stato già definito (almeno in parte) lo spinoso problema relativo alla privacy. Ritrovarsi all'interno di un'analisi del genere, sentirsi come un “oggetto” e non come un soggetto attivo e partecipe, può darci fastidio e farci sentire parte di un piano più grande di noi. In realtà gli algoritmi ci permettono di avvicinarci a quella che è una concezione della vita (sociale, economica e non solo) più personalizzata, più vicina alle nostre esigenze personali e individuali.

A volte questa personalizzazione sfugge alla nostra percezione. Ecco che ci ritroviamo al centro di campagne di marketing che, pur incontrando i nostri gusti, ci fanno storcere il naso perché sembrano piombate in alto dal cielo della chiaroveggenza. Ancora, in ambito sociale e comunicativo, gli algoritmi di Facebook e di altri social media ci mettono di fronte a scelte che non percepiamo come nostre anche se, in teoria, appartengono a noi: è il caso della selezione che Facebook fa dei post da mostrarci, selezionando attraverso i suoi algoritmi ciò che è più probabile sia di nostro gradimento e con cui tendiamo a interagire maggiormente.

Un mondo del genere è un mondo dove chi offre un servizio saprà sempre un po’ più di noi, e proprio grazie a questo sarà anche in grado di offrire lo stesso servizio a un livello migliore, un servizio più personalizzato e funzionale alle nostre esigenze individuali.
La vera sfida, da un lato, è quella di non perdersi in timori eccessivi, dunque di diffondere la conoscenza su certe tematiche ancora troppo ignorante anche in ambito scolastico. Solo attraverso la conoscenza piena di certi meccanismi – e la consapevolezza di ciò che si fa e di quanto si comunica di sé all’interno del mondo virtuale – è possibile una piena accettazione delle loro conseguenze.

In questo l’Italia (ma non solo) deve lavorare ancora molto per superare i pregiudizi dei tecnofobici. Dall’altro lato, l’evoluzione, sempre più veloce grazie a questi nuovi strumenti, ci sta mettendo di fronte a scelte etiche sempre più difficili.

Pensiamo alle nuove questioni che discutono da molti anni in ambito medico (basti pensare alla bioetica e alle innumerevoli problematiche che affronta). Un mondo in evoluzione non è di per sé pericoloso, anzi, ci permette di utilizzare strumenti sempre più efficienti per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi. La complessità, semmai, di questi strumenti è il vero nodo della questione, perché a nessuno piace sentirsi in balia di una corrente senza la possibilità di decidere.

Le questioni etiche poste da un’evoluzione tecnologica in continua espansione sono tante e ancora una volta è l’essere umano e non la macchina a doverle risolvere.
Le macchine sono strumenti, è l’uomo stesso che le crea e che decide in che modo utilizzarle; e, in un certo senso, fanno ormai parte della natura del mondo. Non si tratta di oggetti divini piovuti dal cielo, misteriosi monoliti di cui non si conosce il funzionamento.


La missione delle macchine è quella che noi scegliamo di affidare loro. La partecipazione delle macchine capaci di apprendere non cancellerà di certo l’esistenza umana ma la renderà diversa. Più facile e meno legata al lavoro fisico, più incentrata sul lavoro teorico e di progettazione. L’idea, forse, sarà la nuova frontiera, e non più la fatica fisica.

Con l’avvento di algoritmi sempre più evoluti e capaci di intervenire nella nostra vita quotidiana con sempre maggior peso, saremo richiamati a prendere un maggior numero di decisioni e non certamente a non prenderne affatto.

La nostra vita sarà in un certo senso reinventata proprio sulla base dei nostri desideri. Non saremo in balia di una corrente esterna ma al timone di una nave dotata di una strumentazione sempre più complessa e dal grande potenziale: più affidabile, più veloce e capace di raggiungere mete fino a qualche tempo fa inimmaginabili.

Luca Tomassini 3 gennaio 2021
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Parlare di privacy come un concetto generale, universale, è semplicemente impossibile.