Passa al contenuto

Il futuro del lavoro: oltre il mito, dentro la realtà

Un tentativo di previsione al 2035

Negli ultimi anni si è consolidata una narrazione estremamente seducente sul futuro del lavoro. Video, articoli e conferenze mostrano professionisti sorridenti, seduti con un portatile su una terrazza affacciata sul mare, magari dall’altra parte del mondo, liberi di lavorare poche ore al giorno grazie a strumenti di intelligenza artificiale che fanno il resto. È un’immagine potente, quasi cinematografica, che promette libertà, tempo libero e controllo totale sulla propria vita. Una visione che piace, che ispira, che rassicura chi sogna una carriera “senza vincoli”. Ma questa è solo una parte della storia, e per la maggioranza delle persone rischia di essere lontanissima dalla realtà.

La trasformazione in atto nel mondo del lavoro è molto più complessa. Non si tratta semplicemente di fare lo stesso mestiere di oggi in condizioni più comode: parliamo di un cambiamento strutturale, profondo e irreversibile, che sta ridisegnando interi settori economici. L’Intelligenza Artificiale, la robotica, l’automazione industriale, la blockchain, l’Internet of Things non sono più tecnologie sperimentali: sono già operative, spesso invisibili agli occhi dei consumatori, ma ben presenti nelle catene produttive e nei servizi che utilizziamo ogni giorno.

“Ogni volta che una macchina riesce a svolgere un compito in modo più rapido, preciso e conveniente rispetto a un essere umano, il mercato si orienta in quella direzione.”

La logistica, per esempio, è già in piena rivoluzione. Amazon, DHL, UPS e tanti altri operatori stanno adottando magazzini completamente automatizzati, in cui i robot gestiscono il 70% del movimento merci. Nel settore bancario, l’automazione dei processi ha ridotto del 30% in pochi anni il fabbisogno di personale nelle operazioni di back-office. La customer care di molte aziende è oggi gestita in larga parte da sistemi conversazionali basati su AI, in grado di rispondere a migliaia di richieste simultaneamente, con un costo marginale vicino allo zero.

Questo non significa che il lavoro umano scomparirà. Significa piuttosto che molti ruoli cambieranno radicalmente natura e che altri nasceranno da zero, richiedendo competenze completamente nuove. Secondo il Future of Jobs Report del World Economic Forum, il 44% delle competenze dei lavoratori dovrà cambiare entro i prossimi cinque anni. E non si tratta solo di competenze tecniche: le cosiddette soft skills — pensiero critico, adattabilità, intelligenza emotiva — diventano sempre più decisive.

L’idea di una carriera lineare, stabile e prevedibile è ormai superata. Ognuno di noi, nel corso della propria vita, dovrà affrontare più transizioni professionali, spesso in settori differenti. Il concetto stesso di “professione” sarà più fluido. In Giappone, alcune aziende stanno già adottando contratti che non definiscono un ruolo fisso, ma una serie di progetti e funzioni che il dipendente può ricoprire in momenti diversi.

Questa necessità di reinventarsi continuamente porta con sé due sfide enormi. La prima riguarda la formazione. Il modello educativo tradizionale, che concentra l’apprendimento nei primi vent’anni di vita, non è più sostenibile. Servono sistemi di lifelong learning accessibili, che permettano di aggiornarsi e riqualificarsi in ogni fase della carriera. La seconda sfida è psicologica: non tutti sono pronti a cambiare pelle professionale più volte. In un sondaggio Gallup il 38% dei lavoratori ha dichiarato di sentirsi “sopraffatto” dall’idea di dover acquisire nuove competenze in tempi rapidi.

Il cambiamento in numeri

  • 44%: quota di competenze che cambieranno nei prossimi 5 anni (WEF)
  • 14%: lavoratori a rischio sostituzione diretta entro il 2030 (OCSE)
  • 32%: lavoratori che subiranno modifiche radicali alle mansioni (OCSE)

C’è poi un equivoco pericoloso: il futuro del lavoro non sarà appannaggio esclusivo di professioni “alla moda” come l’esperto di AI, il creatore di contenuti o lo sviluppatore blockchain. Il vero discrimine non sarà il settore, ma la capacità di generare valore. Un elettricista che usa un sistema di diagnostica predittiva per ridurre del 50% i tempi di intervento sta applicando innovazione tanto quanto un ingegnere del software. Un agricoltore che sfrutta sensori IoT per ottimizzare l’irrigazione produce un impatto tecnologico reale e misurabile.

L’Intelligenza Artificiale, per quanto potente, non potrà sostituire ogni aspetto del lavoro umano. Mancano ancora — e probabilmente mancheranno a lungo — il giudizio, la capacità di leggere contesti complessi, l’empatia, la creatività autentica. Per questo, il lavoro di domani sarà una collaborazione continua tra uomo e macchina. La macchina farà quello che sa fare meglio: analisi di grandi moli di dati, operazioni ripetitive, attività standardizzabili. L’uomo, liberato da queste incombenze, potrà concentrarsi su decisioni, innovazione, relazioni e gestione di situazioni imprevedibili.

Ma senza un disegno strategico, il rischio è quello di ampliare le disuguaglianze. Il divario tra chi possiede competenze digitali avanzate e chi ne è privo si tradurrà in un divario di reddito e opportunità. Secondo l’OCSE, senza interventi strutturali, entro il 2030 il 14% dei lavoratori nei Paesi sviluppati potrebbe perdere il proprio impiego a causa dell’automazione, e un ulteriore 32% potrebbe dover affrontare cambiamenti radicali nelle mansioni. È per questo che la formazione digitale deve essere considerata un diritto di cittadinanza, non un privilegio.

In definitiva, il futuro del lavoro sarà il risultato di una combinazione di politiche pubbliche, scelte aziendali e responsabilità individuali. È vero che il cambiamento è collettivo, ma la capacità di adattarsi resta innanzitutto una sfida personale. Non possiamo aspettare che qualcun altro decida per noi. Serve curiosità, voglia di imparare, disponibilità ad esplorare settori e strumenti nuovi, anche a costo di uscire dalla propria zona di comfort.


Un tentativo di previsione al 2035

Quando penso a come sarà il mondo del lavoro tra dieci anni, non vedo una sola traiettoria, ma almeno tre scenari distinti, ciascuno con le proprie sfide e opportunità.

Nel primo scenario, quello che chiamo “Collaborazione aumentata”, l’Intelligenza Artificiale diventa parte integrante della vita lavorativa di tutti. Non parliamo più di “usare l’AI” come qualcosa di straordinario, ma di una condizione di base. Ogni professionista, dal medico al tecnico, dispone di strumenti che aumentano la sua capacità di analisi e decisione.

Nel secondo scenario, “Polarizzazione estrema”, la tecnologia accelera più rapidamente della capacità di adattamento della popolazione. Una parte della forza lavoro prospera in lavori ad alto valore aggiunto, mentre una quota significativa resta intrappolata in ruoli precari o fuori dal mercato. Il divario di reddito diventa la principale frattura sociale.

Il terzo scenario, “Riorganizzazione umanocentrica”, è quello che auspico. Qui la tecnologia è usata per migliorare la qualità della vita e della società. La formazione continua è accessibile a tutti, e il lavoro è un mezzo per contribuire, crescere e vivere con dignità.

Il futuro premierà chi agirà oggi. Chi inizierà a esplorare, formarsi, sperimentare senza aspettare il “momento giusto”. Chi sarà pronto a investire su se stesso con la stessa determinazione con cui un imprenditore investe in un’idea. 

Perché il lavoro di domani non verrà consegnato chiavi in mano: dovremo costruirlo, passo dopo passo, senza perdere di vista la nostra identità, ma arricchendola con tutto ciò che la nuova era tecnologica può offrirci.

Luca Tomassini 9 agosto 2025
Condividi articolo
Archivio
La prossima rivoluzione?
Comprendere ciò che stiamo già costruendo