
Luca Tomassini
13 mar 2019
L’uomo si è sempre avvalso di strumenti che, nello stesso tempo, sottraevano e aggiungevano.
L’utensile svolge il lavoro al posto della mano (e quindi toglie fatica) e permette che l’opera sia meglio compiuta (aggiunge “perfezione” al lavoro). Questo rapporto è rimasto nei secoli più o meno lo stesso, dall’amigdala preistorica all’AI.
Meno fatica e più perfezione.
Sta finendo l’epoca del lavorare per lavorare, l’epoca dello “sgobbare”, di quell’approccio fatalistico che sviliva la nobiltà propria a questa azione così umana che è il lavoro, ovvero l’attività sopra tutte che - se coniugata con l’intelligenza - ci rende veramente umani.
Ma allora, diranno alcuni, le macchine ci renderanno disumani, se ci toglieranno la possibilità, o la necessità, di lavorare; se ci sottrarranno il dovere di toccare, muovere, spostare, zappare, calcolare, guidare, verniciare, avvitare, inchiodare, assemblare …?
Niente affatto. Tutto cambia, come diceva il filosofo greco. E la società nel suo complesso, a ogni livello, deve farsi carico di accompagnare e gestire questo passaggio.
Assisteremo, in tempi non molto lunghi, a una specie di affrancamento collettivo dalla dimensione del lavoro, inteso nei termini in cui è stato inteso fino ad ora, dalla rivoluzione industriale in avanti.
Una concezione che, in tanti casi, non era poi così lontana da una specie di “sfruttamento evoluto” della risorsa umana. Più la schiena faceva male alla sera, e più il pane era guadagnato onestamente. È, secondo me, una logica perversa.
Senza togliere nulla a coloro i quali hanno avuto la necessità di “ammazzarsi di lavoro” in epoche storiche diverse da questa, credo che sarebbero proprio quest’ultimi a dirci oggi: fallo fare alla macchina, perché io so cosa significa.
Tutti si dovranno far carico della trasformazione in atto.
Così, la politica dovrà organizzare il sistema Paese in alleanza con i settori più avanzati dell’innovazione.
Dovrà, in questi primi tempi, cercare di colmare gli squilibri occupazionali non demonizzando le macchine, ma ammortizzando i danni a livello umano in vista di un riassesto generale delle modalità produttive. Dovrà spiegare alla gente che cosa significa fare innovazione.
Negli ultimi tempi sentiamo parlare di reddito di cittadinanza, reddito d’inclusione, lavoro di cittadinanza. Sono, a mio avviso, tentativi, ipotesi che vanno nella direzione giusta, che tentano di far capo al problema.
Ma c’è un ma. E questo ma consiste nel fatto che non si può tagliar corto, sostenendo che il lavoro non ci sarà più, punto e basta; e che quindi dovremmo assistere a vita coloro i quali, per forza di cose, non avranno più un ruolo nella produzione della ricchezza.
Queste soluzioni devono essere impostate, innanzitutto, per far fronte al presente. Al tempo stesso, servono idee capaci di rilanciare verso l’avvenire, e di immaginare un nuovo tipo di collocazione, e di organizzazione della vita lavorativa.
Ci sarà bisogno, per esempio, di un tipo diverso di contratti. E dovremo pensare a come potrebbe cambiare lo stesso sistema di retribuzione, tenendo conto della diffusione delle criptovalute.
È un ottimo intento, a mio avviso, quello racchiuso nell’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro. Il sistema nel suo complesso, è un’impostazione figlia dei tempi che sono e che saranno; un’impostazione che guarda al domani.
Se, infatti, consideriamo la rivoluzione digitale come una rivoluzione culturale e sociale, e quindi un movimento che determina e modifica approcci e comportamenti, anche al di là dell’utilizzo diretto di dispositivi e tecnologie, tutto ciò che si dispone alla costruzione del mondo nuovo ne è il necessario complemento.
E poi, oltre a questo discorso, c’è quello delle diverse capacità, fisiche e intellettuali. Non c’è niente da fare, le macchine, in alcuni settori, lavorano meglio. Nelle catene, ad esempio, dove la ripetitività è tutto; sono più veloci, non hanno turni, né pause pranzo né pause caffè, malattie, maternità, infortuni.
Solo, necessitano di periodi dedicati alla manutenzione (che a breve diverrà un’auto-manutenzione, eseguita dallo stesso robot). Le macchine non negoziano lo stipendio, non chiedono aumenti. Hanno dei costi relativi all’alimentazione energetica, ma si ricorrerà ad impianti fotovoltaici che consentiranno di produrre in proprio il fabbisogno, abbattendo sensibilmente i costi.
Secondo le stime, quasi il 50% dei lavori attualmente gestiti da esseri umani verranno svolti dalle macchine. Dove si abbatterà la scure implacabile dell’automazione, si chiedono in tanti? Su quali categorie?
E qui partono le scommesse e le profezie: i lavori che verranno sostituiti nei prossimi anni e i lavori che non verranno mai sostituiti. I lavori che nasceranno.
Tra i primi abbiamo:
operatori di call-center e telemarketing (già oggi esistono degli ineccepibili assistenti vocali che riescono addirittura a conversare con noi; spesso capita di essere chiamati per telefono da un bot);
postini (con l’ovvia predominanza della posta elettronica);
boscaioli, agricoltori, contadini, giardinieri (settori che da tempo beneficiano dell’introduzione di sistemi d’irrigazione, stoccaggio, ecc.);
cassieri o simili (pensate alle grandi stazioni; già oggi alcune biglietterie sono quasi completamente automatizzate tramite totem – nelle ore di punta, allora, è l’uomo a far da assistente alla macchina);
autisti (verranno le auto autonome, ancora in fase sperimentale, ma ci siamo quasi);
bibliotecari;
assicuratori;
commercialisti (in quanti già, non ne hanno più chiesto i servizi, a seguito della dichiarazione dei redditi precompilata?);
medici chirurghi (ed è tra le cose che più ci spaventa, eppure arriverà un giorno nel quale, forse, saremmo terrorizzati al solo pensiero che un altro essere umano, con tutte le sue inevitabili mutevolezze, debolezze, distrazioni ecc. esegua su di noi un’operazione a cuore aperto);
operai.
Tra i secondi, ovvero tra i mestieri che “non verranno mai sostituiti dalle macchine”, si elencano:
autori e artisti, ovvero scrittori, compositori, pittori, stilisti, registi, attori (non mancano casi ed esperimenti di macchine in grado di scrivere, dipingere, comporre musica con risultati soddisfacenti, ma si crede ancora che la creatività sia qualcosa di non riproducibile; anche se io aspetterei a vedere che cosa succederà davvero con l’Intelligenza Artificiale, per capire se la questione della Creatività Artificiale non debba essere radicalmente riconsiderata);
imprenditori e produttori (per essere tali c’è bisogno di capacità decisionali, e quindi di andare, magari, anche contro alle apparenze, alle aspettative; c’è bisogno a volte di avere coraggio e di rischiare. Potrà mai una macchina rischiare?).
Poi ci sono gli psicologi, gli psichiatri, gli insegnanti, ovvero tutti coloro che utilizzano un approccio relazionale di tipo empatico con il cliente, cosa che difficilmente riusciamo ad attribuire ad una macchina. Anche se, pure su questo punto, io nutro dei dubbi. Non riguardo alla specificità dei mestieri elencati, sia chiaro, ma riguardo al fatto che non sia possibile stabilire un certo grado di empatia con un robot. L’uomo ha innata una tendenza animista, e riesce, in certi casi, a provare dei sentimenti anche per gli oggetti. Pensate alle reazioni (magari solo a livello inconscio, ma non meno determinanti per questo) che la vicinanza con un androide molto somigliante a un essere umano potrebbe scatenare. Pensate a quale potrebbe essere la reazione a un atto di gentilezza inaspettato, nei nostri confronti, da parte di questo robot che ci somiglia così tanto. Se doveste, per caso o per scelta, fare del male all’umanoide, spezzargli un braccio, per esempio, menomarlo in qualche modo, non vi sentireste colpevoli, eticamente e moralmente?
E poi ci saranno dei lavori nuovi, che ancora non esistono o sono in via sperimentale. Allora si parla di:
cartografi per disegnare le rotte delle auto autonome;
assistenti sociali per trattare i disturbi di chi ha subito traumi o dipendenza nell’utilizzo dei social network;
broker del tempo, nell’eventualità che il tempo diventasse una moneta molto quotata;
narrowcaster, ovvero il contrario di broadcaster, figure specializzate nell’individuazione di contenuti specifici, operanti trasmissioni mirate;
personal brander;
addetti allo smaltimento dei dati personali presenti in rete;
Uno studio condotto per conto del governo britannico ne ha individuate 20 nuove di zecca, di queste professionalità, pronte a nascere entro il 2030.
Ricapitolando, dobbiamo capire non tanto come impiegare il tempo, e come dare una prospettiva di vita e di realizzazione personale a chi rimane disoccupato (cosa fondamentale); ma comprendere come – avendo in vista l’obiettivo uomo – vogliamo che sia la società del futuro.
La cosiddetta “fine del lavoro”, scenario ventilato come catastrofico, deve farci riflettere sul fatto che è stata la nostra stessa intelligenza ad aprire le frontiere. È stato l’essere umano che, nella ricerca di sistemi atti a migliorare la propria vita, ha dato a se stesso la possibilità di un mondo “senza lavoro”.
La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, un’ideale comunità di nazioni dell’avvenire sarà fondata sulla ricerca. Sullo studio, sulla conoscenza. Se ci sarà ancora del lavoro da fare, sarà un tipo di occupazione orientata in direzione dell’approfondimento.
Anche le materie scientifiche, probabilmente, torneranno a essere pienamente umanistiche, “arti intellettuali”, come lo erano nel medioevo, di contro alle “arti meccaniche”. Di queste, della parte dell’applicazione, del funzionamento, dell’approvvigionamento, di tutto quello che concerne i bisogni del nostro sostentamento, si occuperanno gli algoritmi, che sanno fare meglio i calcoli.
Certe cose, in fin dei conti, non sono mai state necessarie in loro stesse. Se parlate con un matematico, per esempio, vi dirà che l’essenziale è comprendere le formule, i concetti, e non saper fare i calcoli. Per quelli c’è la calcolatrice.
Se a qualcuno il futuro come si prospetta fa orrore, io dico: pensi con orrore, allora, anche alla lavatrice, alla lavastoviglie, al frigorifero, al ferro da stiro, all’asciugacapelli, al telefono, al defibrillatore.
Pensi costui che, nella storia, sono state le grandi innovazioni tecnologiche a riscattare i popoli dalla fame e dalla povertà. È stata la televisione a insegnare la lingua italiana a milioni di persone, e quindi a sconfiggere l’analfabetismo che ereditavamo dai tempi preunitari.
Pensi, costui, che la rivoluzione digitale non è una rivoluzione di macchine, ma di esseri umani.
Di uomini e di donne che stanno trovando la via per bilanciare pesi e contrappesi dell’esistenza, potenziando quanto in loro stessi c’è di migliore.
La società di domani sarà tutt’altro che dittatoriale o impositiva, non assolutizzerà la tecnica considerandola come il non plus ultra della civiltà, ma consentirà, soprattutto, proprio grazie alla consapevolezza generata dall’utilizzo dei nuovi strumenti, una più ampia libertà di scelta.
È a questo che dobbiamo puntare.