top of page

Lo sviluppo esponenziale e la resistenza dell’uomo analogico

Luca Tomassini

14 mag 2020

La comparsa del digitale, e quindi di Internet e della connessione globale, ha impresso una drastica accelerazione allo sviluppo della tecnologia. Questa, per la legge dei ritorni acceleranti, non ha più uno sviluppo lineare, ma esponenziale.

Per chi ricorda qualcosa di matematica, la differenza principale sta nel fatto che in una funzione lineare gli elementi dell’operazione sono tutti di grado 0 o 1 (vale a dire rimangono se stessi); in una funzione esponenziale, invece, il grado è 2, o superiore a 2, e quindi ogni elemento dell’operazione viene, per lo meno, moltiplicato per se stesso.


Pensate allora a una catena di elevamenti a potenza. 2 x 2 x 2 x 2 ecc.


Questo sviluppo accelerato della tecnologia, lo sappiamo, ha portato con sé la modifica radicale di molti aspetti del vivere comune.

Ha scombinato il modo di inviare e ricevere la posta, il modo di incontrarsi, di fare amicizie, di trovare l’anima gemella; ha rivoluzionato il modo di viaggiare, di gestire i propri risparmi, di interagire con gli oggetti di uso comune. Tant’è vero che, da un giorno all’altro, qualcuno potrebbe non averci capito più nulla.


Il passaggio dall’uno all’altro mondo non è stato, a volte, così semplice, e le vecchie strutture mentali “analogiche” sussistono ancora oggi.


D’altra parte, l’ho ripetuto più volte in varie occasioni, l’avvento delle tecnologie digitali non è stato, per esempio, come l’invenzione degli elettrodomestici, che pur hanno semplificato e agevolato, reso diversa la vita delle casalinghe e delle famiglie. È stato, piuttosto, qualcosa che ha puntato sin da subito verso un’altra dimensione; quasi con l’intento di andare a toccare dei nodi essenziali per l’esistenza umana.


Non esageriamo nel dire che la tecnologia digitale ha per obiettivo la trasformazione dell’uomo.


L’uomo è l’unica specie, probabilmente, in grado di trasformare se stessa. Lo fa con la genetica, con la medicina, con la psicologia. Vede ciò che non va e cerca di scegliere tra comportamenti, abitudini, modi di pensare, con l’obiettivo di perfezionarsi.


Le nuove tecnologie, allora, ci dicono che sarà possibile allungare la vita anche di trent’anni, intervenendo sulle strutture molecolari.


Grazie a nuovi sistemi d’indagine, accumuliamo studi sul funzionamento del cervello che un domani, magari dati “in pasto”, tutti insieme, a un algoritmo intelligente, potranno farci scoprire su noi stessi cose attualmente impensabili.


La consuetudine con pratiche tecnologiche molto veloci, dinamiche, reattive (nel funzionamento delle quali il cervello umano in parte si rispecchia), come abbiamo detto, provoca degli adattamenti e delle mutazioni nei processi cognitivi.

Così, pur non venendo intaccato lo strumento di codifica e di elaborazione (il cervello), possiamo permetterci di dire che un passaggio dall’“uomo analogico” all’“uomo digitale” c’è stato.


Non si è trattato, con tutta evidenza, di un’evoluzione in senso biologico, ma culturale.


L’uomo digitale è un uomo che ha accesso a una più ampia visione e gestione, non tanto dell’esistenza in quanto tale, quanto delle facoltà fondamentali dell’essere umano.

Le sue reazioni intellettive sono più veloci e precise; il cervello si sta abituando a gestire in simultanea una quantità di stimoli, informazioni, richieste. È forse ancora presto, per accorgersi dei mutamenti in atto a questo livello, ma dobbiamo cominciare a ragionare anche su questo aspetto.


La specie cambierà.


Per dare conto delle differenze tra le due visioni del mondo (che, per convenzione, chiamiamo analogica e digitale) mi viene da pensare all’incontro che può essere avvenuto, decine e decine di migliaia di anni fa, tra i primi Homo Sapiens e gli ultimi Neanderthal. Rispetto a quest’ultimo, il Sapiens era già una specie che elaborava delle forme di linguaggio e di simbolizzazione rituale.


Di questo incontro leggendario, trasmise una ricostruzione televisiva il programma Ulisse di Alberto Angela. Per mostrare la differenza culturale tra le due specie di ominidi, il filmato li riprendeva nell’atto di pescare da un fiume. Mentre il Neanderthal tenta inutilmente di afferrare il pesce a mani nude, il Sapiens si avvicina con una lancia dalla punta lavorata e affilata.


Con un colpo deciso riesce a catturare la preda. Il presentatore poi chiedeva se, dopo quell’incontro tra mondi così lontani, sarebbe stata possibile una convivenza.


Più che di convivenza, però, nel nostro caso credo sia più opportuno parlare di ibridazione. Ovvero, in quest’epoca di passaggio, quello c’era prima non viene cancellato, ma entra a far parte del nuovo sistema.


D’altra parte, lo stesso uomo di Neanderthal non è scomparso dalla scena senza lasciare traccia. L’incontro prima descritto può essere avvenuto anche tra individui di sesso opposto, e dal loro accoppiamento una parte dell’eredità genetica neanderthaliana si è trasmessa fino a noi, e ha contribuito al nostro sviluppo biologico.


Non dimentichiamo, poi, che sono state proprio le ultime generazioni di “analogici” a inventare le tecnologie digitali e che se costoro hanno costruito un mondo a volte ostile, alieno a tanti loro coetanei, hanno comunque lanciato un ponte verso il futuro che le nuove e nuovissime generazioni stanno attraversando con disinvoltura.


Quello che l’uomo analogico (ovvero l’uomo nato e vissuto prima dell’avvento del digitale, tra i quali mi ci metto anch’io) tenta di dare, e che può dare spesso in maniera efficace, è soprattutto un contributo critico, avendo una capacità di guardare dall’esterno che i nativi, per forza di cose, non possiedono.


Non sempre, però, lo fa apertamente.


Spesso, come per un senso di rivalsa, c’è chi assume degli atteggiamenti, delle maschere, dei comportamenti più rivolti alla negazione e alla demonizzazione che non alla costruzione del futuro.


Da un lato, c’è chi si lancia nelle nuove tecnologie con il fanatismo del convertito, e quasi vorrebbe rinnegare il proprio passato.

Sono entusiasti, euforici, con poco spirito critico. Difficilmente si rintraccia in questo di tipo di persone una scintilla di comprensione della vera natura delle tecnologie digitali.


Qui, si arriva all’assurdo di sostenere che tutto ciò che non esiste su Internet non esiste affatto. A volte, negli adulti, questa tendenza sconfina in una voglia spasmodica di giovinezza, in una corsa all’imitazione dei propri figli.


Si vuol essere più smart, più easy, più young, ma si è solo più vecchi e più lenti, perché non si è lucidi di fronte alla realtà. Si sente il rimpianto di essere nati troppo presto, e di non aver potuto apprendere quella naturale capacità di gestire il mondo connesso che i nuovi nati hanno.


Nonostante gli sforzi e i tentativi, la scissione generazionale si amplifica.

All’estremo opposto c’è chi si mantiene distaccato, come per paura di venire contaminato dai nuovi sistemi di comunicazione, dei quali non si fida. Ci rubano la vita, ci controllano. Il cellulare disturba, toglie mistero alla personalità.


Meglio sarebbe tenerlo spento, o a casa, come il telefono di una volta. Non si può stare mai in pace. Sono una minoranza, ma esistono. Non hanno profili social, non usano sistemi di messaggistica istantanea, continuano a svolgere il più possibile le operazioni quotidiane come le svolgevano un tempo (per esempio, preferiranno sempre pagare la bolletta del gas allo sportello, anche facendo la fila, piuttosto che “rischiare” la domiciliazione).


È un approccio alla realtà di tipo sentimentale, romantico, nostalgico.


Il loro motto è: si stava meglio quando si stava peggio.

Si stava meglio quando le regole del mondo erano fisse e immutabili oppure, se venivano modificate da quale scoperta scientifica, non c’era troppo da preoccuparsi, perché ci sarebbe stato tutto il tempo per abituarsi all’idea, per esempio, che l’atomo non era una specie di panettone ripieno di particelle/canditi, ma un sistema simile a quello solare con orbite e nucleo; in ogni caso, quasi mai le cose sarebbero cambiate davvero.


In quel tempo, c’erano delle cose che ci facevano la “cortesia” di restare impossibili, pura fantascienza, e delle cose che, forse sì, sarebbero anche potute accadere, ma in un futuro lontano.


Per molti di questi reazionari, Internet è soltanto una grande enciclopedia, un’opportunità come un’altra.


Diranno: le ricerche le facevamo, comunque, anche prima, in biblioteca, e potevamo sentire e annusare l’odore della carta, l’odore del tempo.


Ed ecco che spunta allora, immancabile, il discorso sulla riduzione del contenuto, sull’impoverimento del pensiero e della conoscenza.

Ormai, non c’è più bisogno di conoscere in senso classico, non c’è più bisogno di studiare; qualunque cosa tu voglia sapere basta andare su Wikipedia. Così, anche uno stupido può sembrare un Einstein! Vero, ma manca un passaggio fondamentale, quello che fa la differenza tra l’uomo e la macchina, ovvero la capacità di personalizzare i contenuti e renderli unici.


Come detto prima, l’uomo ostinatamente analogico, anche se si maschera da conservatore, riesce a porre, a volte, con le sue critiche, delle domande essenziali, e riesce a cogliere delle sfumature che magari sfuggono a coloro che trafficano con i dispositivi digitali sin dalla nascita.


A livello linguistico, allora, possiamo anche dare credito a una certa stereotipia degli oggetti digitali utilizzati nella comunicazione.

Si pensi alle emoticon, ai termini “giusti” che vengono suggeriti dai correttori automatici durante la digitazione del testo, agli stessi suggerimenti di Google durante la ricerca.


Da un lato, così, vediamo ridurre il materiale linguistico, il paniere dei segni utilizzabili, a favore di una lingua più rapida e convenzionale. E questo, d’accordo, può portare, o fare intravedere, una povertà linguistica, contenutistica, di pensiero.

Dall’altro, però, così ragionando, si bypassa il vero nodo delle tecnologie digitali, che è la costruzione del futuro.


Qualcuno ha detto che lo smartphone che teniamo in mano è l’equivalente del primo aeroplano dei fratelli Wright. Ovvero: se guardiamo in avanti, dobbiamo e possiamo presumere di essere ancora in una fase sperimentale, aurorale, dello sviluppo tecnologico.


Se i materiali e gli strumenti che utilizziamo, a tutt’oggi, ci appaiono allora rudimentali è bene inquadrarli nella loro intrinseca prospettiva di porte aperte sul domani.


Allora, impostando la questione in questi termini, l’elaborazione di codici nuovi per la comunicazione scritta rientra in quella spinta che ha per intento anche la creazione di un - diciamo così - nuovo esperanto universale, la costruzione di un nuovo alfabeto che, mescolando slang, abbreviazioni, termini di lingua inglese, segni composti (come le faccina che ride fatta dai due punti e la parentesi, o quella che fa l’occhiolino col punto e virgola), prova a sviluppare delle nuove radici di significato, dei nuovi morfemi.


Per continuare la carrellata delle reazioni inscenate dall’“uomo analogico” nei riguardi del nuovo mondo, non possiamo non citare quelli che chiamerò i paurosi.

Il loro modello è 2001 Odissea nello Spazio nel quale il supercomputer di bordo, HAL 9000, si ribella agli astronauti. Costoro vedono nelle tecnologie digitali qualcosa di malvagio, addirittura di diabolico.


È un approccio di tipo spirituale al problema, aspetto che non deve affatto sorprendere, dal momento che moltissimi, anche tra coloro che non hanno di questi problemi, nascondono dei lati mistici, e vedono la macchina intelligente più che come un potente ausilio per la conoscenza della realtà, come una sorta di nuova divinità, in grado di farci agire a comando e, nel caso, pronta a rimpiazzarci con una nuova specie robotica.

I paurosi hanno fatto una scelta radicale, all’apparenza l’unica possibile: restare analogici.


Di fronte alle più recenti scoperte ed innovazioni (la loro paura si ingigantisce, per esempio, al cospetto degli annunci relativi agli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale), hanno l’impressione che il mondo vada in malora, e che la fine sia forse vicina, per il genere umano.

Sottraendosi al gioco, credono che, in qualche modo, sia possibile continuare a difendere un qualcosa di irrimediabilmente tramontato.


A ben vedere, questa posizione appare antistorica, irrazionale, regressiva. Eppure, di fronte a degli androidi come Erica, anche qualcuno dei più sfegatati, favorevoli sostenitori del futuro transumano proverà dei brividi lungo la schiena.


Erica è il robot umanoide più simile a un essere umano mai realizzato. È stata creata grazie alla collaborazione tra due Università giapponesi e l’Avanced Telecommunications Research Institute International di Tokyo.

Il suo aspetto è quello di una ragazza giapponese di 23 anni. Sa conversare, raccontare e parlare delle sue esperienze. Di bella presenza, gentile, ancora non sa camminare, ma presto imparerà a farlo, come dice lei stessa.


Di fronte ad Erica, le certezze (o anche le “poche idee, ma confuse”) che abbiamo sul concetto di umanità, personalità, interazione, relazione, sono poste come di fronte a un enigma.


La nostra vita sarà replicabile?


Vivremo fianco a fianco a dei robot che non saremo in grado di distinguere dal nostro amico, dalla nostra fidanzata?


Ci innamoreremo di qualcuno che scopriremo poi, soltanto in seguito, essere una macchina intelligente?


L’uomo ostinatamente analogico vi risponderà di .


Che stiamo per cedere il nostro mondo alle macchine. E vi farà notare che già oggi sono in atto contromisure per difenderci da questa incontrollabile invasione di androidi.


Quando vi registrate a un sito web, per esempio, o quando aprite un nuovo account, il gestore non vi sottopone forse a degli stupidi test (i famosi CAPTCHA) per accertarsi che non siate un robot?

Sono reazioni in certa misura comprensibili.


Di persone che non sono state educate in nessun modo alla nuova realtà (e qui le colpe sono da distribuire in maniera orizzontale, dalla politica, alla scuola, al mondo del lavoro, agli stessi media) e che, da un giorno all’altro, si sono viste sottrarre abitudini e modi di pensare consolidati da secoli, senza avere la preparazione giusta per affrontare un cambiamento così repentino.


Noi che proveniamo dal mondo analogico, siamo cresciuti pensando che i computer non sarebbero mai arrivati a ragionare, a pensare, a sentire come un essere umano; che ci sono certe cose che è impossibile riprodurre.


Anche se poi, se si andasse a vedere nel dettaglio, quasi nessuno sa dire con chiarezza che cosa siano queste certe cose che le macchine non potranno mai fare né replicare.


bottom of page