
Luca Tomassini
17 mar 2020
Il cambiamento non può essere evitato. Il cambiamento fornisce le opportunità per le innovazioni. Ti dà la possibilità di dimostrare la tua creatività.
(Keshavan Nair)
Quando si parla del passaggio dal mondo analogico al mondo digitale ci si riferisce soprattutto ai sistemi di codifica, archiviazione, trasmissione, elaborazione dei dati.
Nel mondo analogico avevamo un sistema basato sulla somiglianza, sulla rappresentazione dei fenomeni fisici in altri fenomeni fisici; nel mondo digitale abbiamo un altro sistema, basato sulla traduzione degli eventi (ma anche degli oggetti) in un linguaggio astratto, fatto di cifre (digits).
Pertanto, parlare di “uomo analogico” è in realtà una semplificazione, non corretto al cento per cento in senso scientifico.
L’uomo, infatti, non è una tecnologia (o per lo meno non lo è ancora, se intendiamo la tecnologia come un prodotto non-biologico dell’uomo), e tutte le operazioni sopra elencate le compie oggi così come le compiva ieri, più o meno nello stesso, identico modo.
Ma l’essere umano è una creatura adattabile, che sa evolvere e modificare istinti e pensieri, e sa trattare con se stessa come nessun altro essere vivente su questa terra.
Difficile allora credere che i mutati sistemi di comunicazione, relazione, conoscenza, trasmissione dei dati, ecc., introdotti dalla rivoluzione tecnologica digitale, non abbiano innestato dentro di noi reazioni e meccanismi, stimolato particolari aree del cervello, accrescendone, magari, le capacità di elaborazione e di risposta.
Se, come dimostrano gli studi sociologici, antropologici, psicologici, noi non siamo degli esseri isolati, totalmente autosufficienti ed auto-compiuti, ma veniamo costantemente influenzati dall’ambiente, dalla società in cui nasciamo e viviamo, è impensabile che la nuova cultura, scaturita dall’introduzione delle ultime tecnologie (una cultura così pervasiva, diffusa, sottilmente penetrante, gratificante di una miriade di aspetti e bisogni), non abbia inciso e non stia incidendo in maniera essenziale sulla struttura mentale dell’essere umano.
Pensiamo a quei casi sorprendenti, per non dire sconcertanti (apparentemente opposti), dei ragazzi “selvaggi”, allevati dagli animali nelle foreste.
Nella storia, ne esistono un centinaio di casi documentati.
Esseri umani che, per un motivo o per l’altro, si sono trovati a crescere con le scimmie o con i lupi, e hanno sviluppato tutte le caratteristiche comportamentali che l’ambiente (naturale e sociale) richiedeva loro.
Al ritrovamento, camminavano a quattro zampe, non parlavano, mangiavano senza l’aiuto delle mani.
Erano umani? Non totalmente, credo, mancando loro la capacità di esprimersi attraverso un linguaggio astratto e simbolizzante. Ma, lo stesso, dimostravano di esserlo nella capacità di sopravvivere all’interno di un sistema relazionale, proprio ad una specie molto diversa.
Così, l’umanità sembrerebbe quasi essere una qualità, una specificazione che si acquista, o che si mette in opera grazie alla trasmissione di un sapere, grazie all’organizzazione di certe facoltà innate in direzione di una dimensione collettiva, sovraindividuale.
È il branco che fa l’animale, e la società che fa l’uomo. E allora, se umani si diventa, vuol dire che “cambiare natura” è, almeno in parte, possibile.
Vuol dire che la vicinanza, la pratica, l’abitudine a certe situazioni, a certi comportamenti provoca in noi mutamenti, rivoluzioni, assestamenti, squilibri e ridefinizioni.
Quella dell’“uomo analogico”, pur se non corretta in senso strettamente scientifico, è una bella espressione, un’immagine che ci aiuta a trattare la questione – a tutt’oggi fondamentale – di un gap esistente (e insistente) tra coloro che hanno vissuto anche nel mondo di ieri, quello dove le tecnologie erano sì diffuse, ma molto diverse da quelle attuali; e coloro per i quali quel mondo di ieri non è molto dissimile, per esempio, dal mondo di Mazzini e di Garibaldi, di Edison e di Tesla.
Quindi, come la tecnologia digitale, grazie ai sistemi di connessione, personalizzazione di quasi ogni tipo di contenuto, automatizzazione ecc., ha impresso e sta imprimendo un “taglio” particolare nelle funzioni cognitive delle nuove generazioni (facendo in modo, per esempio, che certe cose non siano più un problema: si può abitare ad Orvieto, avere un amico del cuore che abita a San Francisco, e sentirlo e vederlo ogni giorno come fosse normale), allo stesso modo dobbiamo supporre si comportò la tecnologia analogica, formando le menti e i comportamenti; anche se il suo raggio d’azione, l’impatto sociale e culturale che ha avuto, è stato più lento, più diluito nel tempo.
Si pensi alla scoperta del telefono.
Ai vecchi telefoni pubblici, nascosti nel fondo oscuro e fumoso di un bar o di una caffetteria, o di una sala giochi.
Oggi, specialmente ai più giovani, sembreranno cose della preistoria, da film in bianco e nero, ma provate a immaginare cosa possa aver rappresentato l’introduzione dell’apparecchio telefonico per tante famiglie, magari divise dal lavoro tra il nord e sud della penisola; per tanti innamorati che morivano dal desiderio di trascorrere insieme il maggior tempo possibile.
Per tanti, provenienti dalle generazioni che hanno conosciuto quel mondo ormai lontano, in cui le uniche tecnologie erano quelle analogiche, l’avvento del digitale è stato come lo scoppio di un meteorite. Prima ancora di comprendere l’abissale differenza tra i vecchi e i nuovi sistemi, quello che ha sconvolto di più credo sia stata la velocità con la quale il cambiamento è avvenuto.