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I giovani ci salveranno

Luca Tomassini

7 feb 2019

Senza tradizione, l’arte è un gregge di pecore senza pastore. Senza innovazione, è un cadavere.
(Winston Churchill)

Abbiamo di fronte a noi una leva di giovani che non ha nessuna ragione per nutrire dei dubbi sull’importanza del mondo digitale.


La tecnologia, per loro, più che un’opportunità è la loro area vitale, e saranno in grado, attraverso questa, di risolvere tutti i problemi di cui noi, maldestramente, da immigrati digitali quali siamo, l’abbiamo inevitabilmente caricata.


Identità, libertà, facoltà di scelta, conoscenza, privacy, sicurezza, fiducia.


La tecnologia digitale è uno strumento per affrontare e gestire direttamente tutti questi aspetti dell’esistenza (On e Off-line), in prima persona, con consapevolezza e rispetto; e non per metterli in ombra, o mutarli nel loro contrario.


Nei giovani delle nuove generazioni non c’è più l’opzione “sì, ma”.


Non c’è più il sospetto legato all’apparizione improvvisa di un nuovo mezzo rivoluzionario. Sono nati in un mondo già rivoluzionato. Sentiranno parlare di un mondo senza Facebook (dove la gente si incontrava per “restare in contatto”) o Spotify (dove la gente entrava nei negozi per comprare musica da ascoltare) come noi dei tempi di prima che inventassero la lampadina.


I ragazzi nati dal duemila in avanti hanno avuto in mano un tablet prima di imparare a camminare. Prima di riuscire a scrivere, sapevano usare il ditino per fare swipe da una pagina all’altra, per cambiare App, per scattare foto. A un occhio datato possono sembrare competenze inspiegabili, ma non dobbiamo sorprenderci: è sempre capitato e sempre capiterà.  


Lo scenario in cui veniamo al mondo e cresciamo ci è familiare; ciò che arriva nel corso delle nostre esistenze - il progresso, le innovazioni, le scoperte - e in qualche modo le modifica, quando non sconvolge, ci trova impreparati. In certi casi spaventati. Anche qui: è normale perché è la natura stessa dell’uomo che lo porta a diffidare delle novità e non tanto per ragioni sociali o culturali, ma per indole genetica.


Tutto ciò che non conosciamo a livello istintivo porta la nostra amigdala (semplificando: la regione del cervello associata alla gestione delle emozioni, paura compresa) ad alzare le antenne e quindi ad emettere segnali di pericolo.


Con il tempo l’innovazione o viene dimenticata oppure diventa consuetudine, in breve superata da una successiva in un processo che chiameremo con l’acronimo (molto di moda) DISRUPTIVE, che per gioco ho voluto identificare in:


Diffidenza

Incredulità

Sorpresa

Rifiuto

Uso

Propagazione

Trasformazione

Innovazione

Visione

Evoluzione


Diffidenza, incredulità e sorpresa precedono il rifiuto dell’innovazione, seguito dal suo uso che ne porta la propagazione, la quale conduce a successive trasformazioni che portano a nuove innovazioni che generano visioni capaci di evolversi e di farci evolvere.


Fra le ricerche di questi ultimi mesi, così come in buona parte degli articoli on e off line, ho trovato una mole impressionante di fonti partigiane, che diffondevano dati, numeri e cifre evidenziate con il preciso scopo di spaventare, prima che di informare il pubblico ricevente sui pericoli che questa quarta rivoluzione in corsa ci costringerà ad affrontare.


Visioni apocalittiche, scenari alla Black Mirror, profezie che fanno impallidire Matrix e tremare i governi.


Con questo non voglio chiudere gli occhi sul lato oscuro del panorama che ci aspetta.

Perché diffondere conoscenza è il modo migliore perché inizi un dibattito sereno, e quindi comprensivo di tutte le opinioni.


Solo se c’è un’atmosfera serena ad attenderle, le persone si documentano. Se si sentono sotto minaccia, scappano, e nella fuga fanno danni.


D’altra parte siamo progettati per reagire così: nonostante pochi di noi abbiano mai fatto esperienza di un bombardamento, tutti (compreso quelli vissuti tranquillamente fino ad ora) reagiremmo cercando riparo al segnale di una sirena antiaerea, non certo andando in biblioteca ad informarci sui diversi tipi di dispositivi di segnalazione.


Siamo progettati per reagire così, è un vantaggio evolutivo. La paura mette al sicuro nel presente. Ma quando si parla di futuro, la paura genera mostri.


Gli interventi legislativi (ancora peggio quelli esecutivi) sotto la spinta della pressione di un’opinione pubblica spaventata, sono la cosa più lontana dalla direzione che ci consenta di evolvere integrandoci alla realtà digitale, e non lasciandoci soffocare da essa. Perché - se pure messa fuori legge - l’innovazione non chiede permesso.


L’umanità non può cercare di fermarla, né rifiutarla a priori e demonizzarla come è capitato nelle epoche più buie del nostro tempo, a pena di gravissime conseguenze (forse fatali). Deve conoscerla.


La conoscenza di cui parlo è profonda, dettagliata, fatta di ricerche oggi accessibili dal più economico degli smartphone e nutre un altro elemento indispensabile al benessere del pianeta e dei suoi abitanti: il buon senso, cioè la capacità di discernimento, collegamento, relativizzazione.


Questo cambiamento rappresentato dalle nuove tecnologie è un movimento che non si arresta e che non si arresterà, e che per questo andrà seguito, incentivato, stimolato.


Dobbiamo restare collegati, connessi. Essere attenti, collaborare.


Il mondo di domani non sarà più il mondo che abbiamo conosciuto fino a ieri.

Ce lo dice il presente. Relazioni, studio, conoscenza, informazione, gioco, economia, lavoro, sviluppo. Tutto subirà una svolta e si trasformerà in qualcosa di più vasto, di più ampio, magari anche di irriconoscibile.”


Lo scrivevo nel 2015, in Vite Connesse. Oggi ci credo come se non più di allora.


Tornando ai timori delle vecchie generazioni e collegandoci al buon senso di cui non si può (mai) fare a meno, è necessario imparare a unire i puntini: prendere il passato, confrontarlo con l’oggi.


Mettere in relazione i fatti aiuta a capirli e serve per gestirli.


Per fare un paradosso azzardato, possiamo pensare all’arte. Arte tradizionale o classica da un lato e moderna e poi contemporanea dall’altro: i tre aggettivi, tradizionale o classica, moderna e contemporanea, sono classificazioni in qualche modo postume perché l’arte, in tutte le sue forme, nasce sempre contemporanea. Solo che poi invecchia.


Ciò che di primo acchito sconvolge, rompe gli schemi, rivoluziona un sistema, con gli anni diventa prassi perché noi che la guardiamo, ci abituiamo ad averla sotto agli occhi. Seppellito l’artista che in vita si era sentito chiamare avanguardista o pazzo, quando sulla sua tomba crescono le erbacce e dentro non resta che polvere, a qualche secolo di distanza dalla rottura degli schemi delle sue opere, ne troviamo il nome fra i classici, inserito nei cataloghi con il label “tradizionale”.


Pensiamo alla generazione di James Dean, a quanto quei ‘ragazzi’ abbiano saputo essere disruptive per chi li ha preceduti. Pensiamo a quella della Beat Generation.


Pensiamo agli uomini e alle donne che oggi passeggiano in blazer e Borsalino e negli anni Settanta urlavano i loro slogan con i fiori nei capelli e i pantaloni a zampa.


Andiamo avanti fino agli anni Novanta e pensiamo allo shock dei primi cellulari arrivati a disposizione delle masse, ai primi universitari che giravano con il telefonino nella tasca dei jeans. Anche allora c’era chi si schierava contro la tecnologia e il progresso, vedendo nel telefonino non solo una minaccia alla privacy, ma una specie di mostro che avrebbe limitato la libertà personale.


Essere rintracciabili a qualsiasi ora del giorno, in ogni luogo, faceva paura a tanta gente, così come oggi c’è chi appiccia lo scotch per oscurare la telecamera dai propri device nel terrore di essere guardato, spiato, filmato.


Per quanto forti potessero essere le resistenze, i telefonini, da allora, hanno cambiato forma e dimensione in un ciclo che a posteriori è divertente, dall’altro rappresentativo quanto una sineddoche.


Da affari enormi, pesanti, per niente maneggiabili, sono diventati sempre più piccoli, fino quasi a sparire nel palmo di una mano (o nelle tasche delle giacche, per non parlare delle borse). Poi si sono mantenuti più o meno stabili fino all’arrivo dell’iPhone.


Il 2007, con l’arrivo di Apple sul mercato della telefonia, è stato l’anno che ha cambiato le nostre vite con un impatto che non riuscivamo nemmeno a immaginare.

I cellulari sono diventati smart e, seguiti a ruota dal diretto competitor Samsung, sono tornati a crescere, fino a raggiungere dimensioni poco gestibili dei modelli a metà tra tablet e smartphone.


Da inaccessibili oggetti riservati a capi di stato e top manager sono diventati abbordabili, in quarant’anni scarsi, si sono diffusi e nei Paesi sviluppati hanno raggiunto una penetrazione superiore al 90%.

Una copertura capillare, quindi, ma non solo: stando ai dati, il 20% di noi controlla il telefono più di 50 volte al giorno, come dire che lo facciamo una volta ogni venti minuti del tempo che passiamo da svegli.


Il prezzo è sceso e nel frattempo hanno ampliato la gamma delle loro capacità, la memoria è cresciuta da un modello all’altro, raddoppiando di pari passo con le funzioni.

Le nuove generazioni non sono state travolte dalla novità, non ne sono diventate fanatiche; non hanno sentito il bisogno di segnare un’identità diversa rispetto al passato.


Si potrebbe dire che loro stessi sono le tecnologie; sono nati digitali.


È proprio osservando gli appartenenti alla cosiddetta Generazione Z che l’espressione: l’innovazione non chiede permesso si fa concreta e pregnante; viva.


Esattamente come la tecnica, infatti, nemmeno le generazioni chiedono, o hanno mai chiesto a quelle precedenti, il permesso di nascere, crescere, esistere.

Possiamo, certamente, immaginare e ricordare un mondo antico, tradizionale, nel quale i figli erano in soggezione di fronte ai padri, detentori di un sapere che andava tramandato in forma immutata.


Ma non mancano storie, nella mitologia classica e nella leggenda, di figli, più o meno ribelli, più o meno innovatori, che hanno rotto con chi li precedeva, e hanno guidato il mondo verso altre direzioni. Un cambio di marcia che mi piace comunque considerare come una staffetta. Una generazione ha un’idea, la successiva capisce quest’idea, quella ancora dopo la sviluppa e la mette in pratica.


Un’altra generazione nasce in un mondo dove i prodotti di quella prima idea fanno parte del quotidiano. La generazione seguente, utilizzandoli, partorisce una nuova idea, e via dicendo.


La giovanissima generazione ha molti nomi: Gen Z, iGeneration, Nativi Digitali, Post-Millennials, Plurals, Delta Generation. Soprattutto negli Stati Uniti, agli inizi del nostro secolo, la questione del nome da dare alla nuova generazione appassionò l’opinione pubblica e i media.


Vennero, e vengono ancora fatte, inchieste, sondaggi; lanciate proposte. Ognuno dei nomi riportati sopra (e non sono gli unici) ha un suo significato, che evidenzia una caratteristica, una sfumatura del “carattere” di questi post-post-millennials.


Per esempio, il Delta viene utilizzato in matematica come segno indicante una variazione, una differenza, un cambiamento. La caratteristica principale degli Z, come abbiamo detto, è che sono nati in un tempo nel quale Internet e le tecnologie digitali erano già ampiamente diffusi.


I sociologi posizionano l’inizio di questa nuova ondata tra la metà degli anni novanta e l’inizio dei duemila. Non c’è unanimità sulla data precisa di questo fenomeno (ed è normale che sia così: quando tutte le voci del coro sono intonate, non c’è nessuno che possa farsi notare).


Non è questa la sede per un’analisi dettagliata di del fenomeno dell’expertise, e della sua relazione con gli organi di informazione dell’opinione pubblica, basti dire però che possiede una sua rilevanza, in quanto monopolizza con il suo disordine di posizioni (fino a condizionarle) buona parte dei processi di dibattito.


Spicca per suggestività la proposta dell’American Marketing Association che ha stabilito la data d’inizio della nuova generazione nell’11 settembre 2001, chiamandola Generazione 9/11, come a voler sottolineare la data dell’attentato alle Torri Gemelle, come la sintesi del processo più ampio di sconvolgimento politico, ideologico e dunque sociale.


Questa ipotetica datazione simbolica ci fa riflettere sulla distanza (il delta, appunto) che ci separa dai nostri figli, nipoti o pronipoti. Chi è nato negli anni dieci del XXI secolo, infatti, non ha assistito, per esempio, all’equivalente del crollo delle Torri Gemelle in TV.


Non ha vissuto in diretta quello, come probabilmente nessun altro degli eventi capitali, più catastrofici e determinanti della storia recente.

Costoro ne hanno solo ereditato le conseguenze, il precipitato sociale, senza aver mai sperimentato sulla propria pelle, il rapido switch tra un prima e un dopo.


Questo ci deve far riflettere su quanto certe cose che a noi, appartenenti ad altre generazioni, sembrano importanti o imprescindibili, poiché le abbiamo vissute, poiché magari abbiamo contribuito alla loro esistenza, potrebbero essere del tutto ininfluenti sulle nuove generazioni.


Il fatto che sia esistito un mondo “diverso” prima di quello attuale, al ritmo degli attuali cambiamenti, può essere del tutto ininfluente, visto che gli attuali “mondi” (se non proprio quelli reali - che pure si modificano ogni giorno con le infrastrutture, i cambiamenti climatici, le evoluzioni del mondo dei trasporti - almeno quelli “digitali” intesi come interfacce di integrazione tra i due piani) se ne cambiano ogni 4 anni.


In questo quadro si vedrà come le questioni afferenti al ricordo, alla memoria collettiva, alla conoscenza del passato, al consolidamento di determinati valori condivisi, cambieranno nel tempo la propria modalità di trasmettersi da generazione a generazione, complici i più moderni sistemi di archiviazione e documentazione.


Se c’è una cosa che le nuove generazioni possono affermare con certezza di avere più delle precedenti, è la quantità di studi che li hanno in oggetto.


Ogni giorno compaiono sui giornali (e ancora di più sono quelli che non ci arrivano, a causa, forse, di risultati che non produrrebbero molti click da parte del grande pubblico, e quindi poco interessanti per i media) di uno studio dell'Università X o Z che ha svelato le caratteristiche che rendono i millennials diversi da qualunque altra generazione, quasi come fossero esseri ontologicamente diversi, e non frutto degli stimoli del nostro tempo.


Sono tolleranti e poco pazienti, responsabili e inaffidabili, determinati e senza spina dorsale, sono obesi ma attenti alla linea, più intelligenti ma meno pratici, più adatti al problem solving ma meno studiosi: insomma, sono tutto e il loro contrario. Poche sono le direttive chiare: sembrano diminuire  il consumo di alcool e tutta una serie di comportamenti a rischio, da “maledetti”, alla moda, e tipici delle gioventù che furono.


Per esempio, un sondaggio del Centers for Disease Control and Prevention rivelava che solo l’8 per cento dei giovani americani non aveva mai indossato la cintura di sicurezza in auto.

Altro aspetto sul quale si pone un’attenzione spesso sconsiderata è la salute, e quindi l’alimentazione.


In questi settori, a livello di abitudini, molte cose sono già cambiate. Qualcuno, allora, fa notare che se i genitori ancora leggevano (e leggono) le ricette dal libro della nonna, i nuovi Z nella preparazione dei piatti si basano direttamente sulle immagini caricate on-line, per esempio nelle bacheche di Pinterest.


Anche nell’utilizzo della rete e dei social si notano differenze che si fanno via via più marcate. Gli Z preferiscono Twitter e Instagram a Facebook, utilizzano preferibilmente una comunicazione non verbale (emoticon, video, foto), perché l’immagine è più immediata e incisiva del testo scritto; ed è comprensibile ad ogni latitudine.


Così, uno dei social network più utilizzati dagli Z risulta essere Snapchat, applicazione nata come servizio di messaggistica istantanea che consente di scambiare soprattutto foto o video di breve durata, modificabili con disegni o con "accessori" alla propria immagine aggiunti grazie all'utilizzo di realtà aumentata.


Un’altra delle particolarità di Snapchat è che i messaggi inviati spariscono automaticamente dopo che l’utente, nel riceverli, li ha visualizzati.


Sono - in un certo senso - messaggi usa e getta, ad uso e consumo di una rete di amici che non è mai intesa nel suo insieme, ma che è sempre limitata alle persone che ci sono in un dato momento, a riprova del fatto che nemmeno le interazioni sociali seguono più modelli rigidi. Tale aspetto è sintomatico anche di un cambio di atteggiamento: gli Z fanno molta più attenzione a cosa pubblicano in rete, a cosa postano sui social o sui blog (per chi ancora li usa).


Lo sanno per una sorta di meccanismo naturale di difesa, sanno che sul web niente viene distrutto per davvero, e sono loro i più esposti a questo teorema, perché lì ci abitano, messi a dura prova dai casi di cyberbullismo, dai flame, dai "dissing" con gli "haters", dalle minacce (la maggior parte esagerate, ma non per questo meno pericolose) che fioccano quotidiane e per ogni minimo fraintendimento, alle offese; insomma, scorie del sistema digitale che (data forse la natura dell’essere umano) sarà forse impossibile eliminare del tutto.


Non c'è da meravigliarsi, allora, se - pure in assenza di una scelta ragionata - i giovanissimi preferiscano  "naturalmente" (nel senso di una predisposizione istintiva all'utilizzo di uno strumento) piattaforme come Snapchat, rispetto alla imperitura conservazione dei dati da parte di colossi come Facebook, le cui identità digitali in loro possesso conservate negli archivi in giro per il mondo, possiedono aspettative di gran lunga superiori alle nostre più rosee.


Non è un caso, dunque, che siano i più maturi ad avere la mania dello share, e i più giovani ad essere più giudiziosi (o solo evolutivamente - in senso psicologico - più adatti, con una fitness più elevata, come direbbero gli Inglesi).


Negli scorsi anni, non a caso hanno trovato spazio nei mercati in espansione progetti come quello di Whisper, al momento dell'uscita un'applicazione multipiattaforma che fu considerata da alcuni l’anti-Facebook, perché permetteva di condividere in maniera totalmente anonima i propri pensieri, a tutti o a una cerchia di amici che avevano così la possibilità di scambiarsi messaggi, confidenze o suggestioni senza rischi.


Che l'anonimato fosse garantito, crittografato o meno, resta tutto da dimostrare. E non è una ipotesi così improbabile che  - visto il boom di iscritti al momento dell'uscita, quando fu considerata una novità del momento - da qualche parte sui server di questa o quell'app che ne copiavano il modello ci siano conservati i nostri segreti più pruriginosi, intimi, o pericolosi.


Se Whisper non è riuscita a reggere all'utilizzo di massa (soprattutto per la mancanza di un modello di business che fruttasse, oltre che consumare le risorse aziendali) e oggi nessuno ne parla più, la sua sola nascita è riprova abbastanza evidente della legge basilare di mercato: dove c'è un offerta, c'era una domanda.


Nel 2016 i gestori di Snapchat - che da sempre, anche lei, si barcamena alla ricerca di un modello di business stabile e soprattutto intelligente; ci ha provato addirittura quotandosi in borsa, ma con risultati finanziariamente pericolosissimi,  peccando di sorta di giovinezza manageriale che ne è sia il suo tratto distintivo (ad esempio le interfacce, dopo anni di sviluppo, sembrano ancora improvvisate ed acerbe versioni beta) sia il suo più grande freno - lanciarono in alcune località test gli Spectacles, occhiali da sole che permettono di registrare video in alta definizione, con un’angolatura di 115° (molto vicina, quindi, a quella dell’occhio umano), senza l’ausilio dello smartphone o del tablet.


Nulla di nuovo sotto il sole: negli stessi anni ci provava anche Google con i suoi Glass a lanciare sul mercato la proposta di un dispositivo che fosse capace di catturare momenti della nostra vita senza appendici (o quasi).

Ma la formula di Snapchat era diversa: mentre Google faceva leva, anche nel marketing, sulla memoria, sulla diffusione, sulla conservazione, sull'archiviazione dei momenti più belli (o fotogenici) delle nostre vite, Snapchat operava su un piano completamente diverso, quello della condivisione istantanea dura e pura.


Le riprese degli Spectacles, infatti, avevano sì come scopo quello della condivisione dell'esperienza senza il filtro dello smartphone puntato in faccia a quelli che ci stavano di fronte, ma il fine era solo quello di diffondere quelle immagini ad altre persone.


Moltiplicare l'esperienza (o una certa visione dell'esperienza), senza archiviarla.


La condivisione arrivava dunque ad avere la stessa rapidità (o quasi) della percezione, molto oltre l'esperienza uso che da anni stava prendendo piede delle diffusissime videocamere wearable GoPro, in quanto queste sono riservate di solito a professionisti dello sport o di altri settori, in quanto richiedono ingenti investimenti di denaro per acquisirle, e ingentissimi investimenti di tempo per trattare le immagini grezze, stabilizzarle, montarle, ridurle di dimensioni, e fare l'upload su piattaforme di hosting video come YouTube (la cui sola operazione, in condizioni normale, cioè con un abbonamento a internet base, può richiedere una notte intera di lavoro al nostro pc, rendendo tutta l'operazione di sharing molto molto lontana dai tempi rapidi della "percezione" e molto più sofisticata rispetto a quanto potrebbe apparire).


Con gli Spectacles, invece, premendo un bottone installato sulla montatura degli occhiali, era possibile registrare video di 10 o 30 secondi, oppure scattare una foto, e inviarla istantaneamente, tramite il wireless, allo smartphone che avrebbe pensato in automatico a condividere il tutto sulla piattaforma di Snapchat.


Se non proprio in diretta, quasi: ma senza i tempi morti della diretta, gli errori, senza la noia della realtà vissuta di un’altra persona, che quella non interessa a nessuno, e che nessun broadcaster al mondo è mai stato capace di rendere attraente (non è un caso che i Grande Fratello nel mondo non vadano più bene come una volta, e che ormai nessuno venda le dirette 24h come accadeva nelle prime edizioni).


Oltre a tutto questo, c'era il fatto che gli Spectacles non avessero un negozio fisico dove poter essere acquistati, ma fossero diffusi al grande pubblico attraverso una rete di distributori automatici.


Che "il mezzo è il messaggio", questa è ancora un volta la riprova: che necessità c'era di un luogo fisico dove poter acquistare il dispositivo (e quindi delle utenze per rendere quel luogo vivibile, degli stipendi dei dipendenti, della sicurezza, della formazione, i loro contributi, delle dovute autorizzazioni)?


E che bisogno c'era di renderli vendibili su Internet, su Amazon, su qualunque marketplace digitale dove ormai è possibile trovare più merce che nel totale dei negozi fisici a disposizione di un dato territorio?


Gli Spectacles erano stati concepiti (e si sono anche avviati verso la loro fine) proprio perché dovevano essere un bene effimero, che si prestasse molto male agli accumuli di stock di magazzino (nessuno, infatti, parlò mai di prestazioni della batteria o robustezza di progettazione, o cose simili a dimostrazione del fatto che erano fatti per essere acquistati, usati, rotti e acquistati di nuovo) alle intermediazioni delle reti di distribuzione, alla macchinosità dello sviluppo e alla onerosità di manutenzione del firmware di un prodotto distribuito su larga scala: della lentezza - insomma - che è fisiologica di qualunque attività commerciale che abbia sede nel mondo reale.


Il target di riferimento a cui erano rivolti gli Spectacles non era il genere di persone che ne avrebbe comprati un paio prima di andare - magari - a un concerto o un festival, o qualsiasi altra esperienza di vita dall’alto contenuto di likabilità.


Gli utenti a cui Snapchat si rivolgeva, erano utenti che avrebbero acquistato gli occhiali d’impulso, a un prezzo non così basso da essere venduti in perdita (perché condividere, su Snapchat, era ed è gratuito e quindi non avrebbe avuto senso) ma abbastanza basso da potersi rivolgere a tutte le tasche di chi ci teneva alla stratificazione in senso social di un brillantino in più della propria identità digitale: qualcosa o qualcuno che stava per vivere un'esperienza densa di significato all'interno della propria subcultura, e all’interno della cui sfera di azione di tale esperienza voleva lasciare la propria firma, perché gli riflettesse briciole di prestigio sul nome.


Altrettanto d'impulso, gli acquirenti degli Spectacles, li avrebbero lasciati a marcire in un cassetto (anche perché - diciamolo - la forma era tutto tranne che “immortale”, e molto lontana dall'utilizzo quotidiano).

E dunque, per intercettare queste esigenze, qualche forma di vendita migliore di un distributore automatico, colorato, che basta una sola persona, un camion e un carrello elevatore per posizionare, riempire, incassare, e controllare?


Non a caso - e Google dovrebbe aver imparato la lezione, dopo aver ucciso i suoi Glass creando dispositivi troppo lontani e sofisticati dalle domande del tempo - gli Spectacles erano occhiali da sole, non da vista, dotati di un hardware ridicolo, che sarebbe stato in difficoltà a riprendere anche una torta di compleanno al buio delle candeline, eppure bastevole per le riprese en plein air: la sola rete di connessioni legata alla parola "occhiali da sole", infatti, basta per identificare il target di eventi a cui era rivolto: sole, mare, aria aperta, connettività 3G, concerti, festival, vacanze. Millennials.


Insomma, chi nasce davanti a uno schermo di qualche tipo (c’è chi li chiama allora glass generation), comunque sia fatto, conosce bene trappole e potenzialità, le conosce istintivamente.


Al punto da far apparire quasi obsoleti tutti quegli argomenti che abbiamo discusso e che discuteremo in questi anni sull’utilizzo responsabile della rete.

Nella glass generation, probabilmente, non troveremo molte vittime della cosiddetta cybercondria, ovvero di quell’ossessione che affligge tantissime persone che hanno incontrato Internet a metà della loro vita.


La cybercondria è quella nuova patologia (tutta digitale) per la quale si cerca compulsivamente in rete la risposta a qualsiasi tipo di disagio ci colga, sia esso fisico o psicologico. È una specie di rapimento, di condizionamento talmente potente, per via del quale spesso si arriva all’assurdo di volere imporre al medico un’autodiagnosi, dedotta dalla frequentazione di alcuni siti web, ostacolando addirittura l’elaborazione della giusta terapia.


È un comportamento, questo, figlio di un approccio sbagliato, tipico di chi vive l’età digitale essendo ancora legato ai parametri del mondo che fu, con sostanziale impreparazione; un atteggiamento non relazionale, che non tiene conto della distinzione tra informazioni e conoscenza, un po’ come si faceva una volta con la TV (e a volte si fa ancora oggi), attribuendo una sorta di infallibilità a qualsiasi opinionista aprisse bocca sul piccolo schermo.


Gli eredi delle generazioni precedenti temono questo flusso inarrestabile di connessioni; parlano di dipendenza dalla tecnologia.


“Perché non telefoni?” - chiedono sentendo i messaggi vocali che utilizzano i ragazzi.


“Perché non esci, invece di stare su Instagram?” - dicono sconsolati senza nemmeno rendersi conto di aver appena chiuso Facebook o di passare interi fine settimana incollati al computer o sul divano davanti a Netflix, prendendo cioè solo la parte addictive dell'integrazione delle tecnologie nel nostro quotidiano.


Si dichiarano preoccupati per il futuro di una generazione che non capiscono ma la verità è che, pur tenendo d’occhio eventuali devianze, non dobbiamo mai dimenticarci che il modo di vivere, di conoscere, di apprendere, di lavorare, di amare, sarà, nei futuri adulti, molto molto diverso dal nostro.


I ragazzi, quelli nati dopo il duemila e sempre di più quelli che stanno nascendo oggi, saranno in grado di gestire le nuove tecnologie (e di cambiarle a proprio vantaggio, personalizzandole secondo il bisogno o l’intento) ovunque: sul posto di lavoro, nel campo della ricerca, nello studio, ecc. come nessun’altro ha mai fatto prima d’ora.


L’economia e la società globalizzate, le relazioni transnazionali, i matrimoni tra persone dello stesso sesso, non sono qualcosa di nuovo e di sorprendente per loro, ma fanno parte integrante del clima del nuovo mondo in cui sono nati e cresciuti.


Queste generazioni hanno accesso in maniera estesa e immediata ad ampi strati di conoscenza.


Possono contare sull’ausilio di esperti in ogni area dello scibile, anch’essi costantemente connessi. La disponibilità (all’incontro, allo scambio, al cambiamento, all’apprendimento) è una delle loro più felici prerogative.

Le nuove tecnologie, la frequentazione delle piattaforme social, l’abitudine a trattare con persone lontane, diverse, fa sì che la loro visione del mondo sia, se possiamo dirlo, più pulita.


Non esistono per principio questioni di differenze razziali, religiose, sessuali; il mondo è un posto a portata di mano, esplorabile, navigabile, trasformabile.


I nuovi sistemi consentono di partecipare alla vita di comunità anche molto lontane ed eterogenee, con idee, progetti, meeting online. Distinzioni proprie del vecchio mondo come quella tra noi e loro, per rivolgerci ad esempio agli abitanti di un’altra nazione, sono ormai sorpassate. Siamo tutti noi. Siamo tutti connessi, utilizziamo tutti la stessa infrastruttura tecnologica globale che è la rete.


E questo ci consente di essere noi stessi.


Un tempo si diceva: fare della propria vita un’opera d’arte. Ormai, questa frase altisonante ha fatto il suo tempo. Grazie alle più moderne applicazioni digitali, gli screenager, come anche vengono definiti, hanno in mano la chiave per fare veramente quello che vogliono delle loro vite. E senza bisogno di tirare in ballo la vita come opera d’arte.


Queste generazioni, come già abbiamo accennato, non subiscono quasi più il fascino decadente dell’eccesso. Per loro, la costruzione dell’identità (così come di una carriera) è un fatto naturale, pragmatico, sensato, ragionevole.


Questo, però, non significa che si accontentino di una vita che una volta si sarebbe definita “borghese”. Non è più il tempo di trovarsi un lavoretto di ripiego, o di servire il cappuccino al bar in attesa di qualcosa di meglio.


Gli Z sanno che possono costruire sin da ora il loro, specifico futuro, con le loro stesse mani e con il loro cervello; sanno che possono e che devono investire nel loro business personalizzato, nelle loro capacità reali. Forse, nessun motto più del celebre Yes, we can si adatta meglio a queste nuove generazioni.


Proviamo a fare ancora un passo in avanti, e a gettare uno sguardo su quelli che verranno subito dopo, gli unborn, coloro che ancora non sono stati neanche concepiti.

Rappresenteranno forse un punto zero, un inizio senza più scorie dovute ai tentennamenti che abbiamo avuto tutti noi, davanti al “monstrum” tecnologico.


Non a caso, l’analista e ricercatore sociale Mark McCrindle l’ha chiamata Generazione Alpha, spiegando in un’intervista al New York Times che la definizione di “alpha” gli è venuta pensando alle classificazioni in uso nel mondo scientifico dove, esaurite le lettere dell’alfabeto romano disponibili, si passa a quelle dell’alfabeto greco.


La generazione Alpha sarà una generazione per la quale il XX secolo apparterrà totalmente al passato.


I loro genitori sono stati tra i primi a doversi davvero confrontare con la flessibilità del mondo del lavoro (senza subirla, però, come i loro padri); a doversi confrontare con il costante aggiornamento delle competenze richiesto da un sistema in rapida evoluzione.


Sarà, questa, una generazione molto consapevole delle proprie possibilità, orientata naturalmente al futuro; una generazione con i piedi ben piantati per terra e lo sguardo lanciato lontano. Una generazione, se possibile, già adulta.


Saranno loro a ereditare i problemi del pianeta. Il surriscaldamento globale, la fine dei combustibili fossili, il rinnovamento delle risorse, la povertà del terzo mondo, la distribuzione della ricchezza.


Tutti questi enormi problemi, insieme ad altri che non siamo stati in grado di risolvere, li lasceremo loro in eredità, ma credo (e spero) che non ci odieranno troppo per questo, visto che, insieme ai disastri e agli squilibri, lasciamo loro anche la chiave per risolverli: la connessione globale, le tecnologie digitali, un mondo avviato verso la partecipazione e la cooperazione collettiva e individuale.


Lo si è sempre detto, di ogni nuovo bambino, che rappresenta il futuro dell’umanità.

Così è da sempre. Ma questa nuova generazione, che sarà fatta dai figli dei nostri figli che stanno nascendo ora, mentre scrivo, e mentre voi leggete, avrà in dono degli strumenti straordinari, affilatissimi, per affrontare le sfide del mondo che sta per arrivare.


Ecco, guardandoli, immaginandoli, mi sento tranquillo.


Se il mondo andrà avanti così, non ci sarà nessun pericolo di essere spodestati dalle macchine intelligenti.


Questi ragazzi, ne sono convinto, non si faranno mettere i piedi in testa da un androide che loro stessi hanno creato.


Il filosofo dell’informazione Luciano Floridi ha coniato un termine, esatto a mio avviso, per definire il nostro nuovo habitat, quello determinato dalla diffusione su scala globale delle tecnologie digitali: infosfera, ovvero la regione delle informazioni. L’infosfera è quell’insieme vastissimo che comprende sia il mondo del digitale, sia i vecchi sistemi di archiviazione quali le biblioteche. È l’insieme della totalità delle informazioni disponibili.


Secondo Floridi, la stessa “vecchia” biosfera sarebbe ormai parte dell’infosfera.


Ecco. L’infosfera è il luogo nel quale le nuove generazioni crescono e cresceranno.

Un mondo molto diverso da quello che ci ha visti nascere, dove l’accesso alla conoscenza si raggiungeva a mezzo di sacrifici e fatiche. Alcuni, lo so, storceranno il naso. Sostenendo che lo studio, l’apprendimento sono percorsi formativi che necessitano di essere compiuti per intero, grado a grado.


È vero. E, infatti, nulla nell’iter della formazione, molto probabilmente, salterà. Lo dimostra l’attenzione che i giovani della generazione Z ripongono nell’ottenere un titolo di studio, e le percentuali crescenti di coloro che (per esempio negli USA) si laureano per tempo, senza andare fuori corso.


Credo comunque che un accesso più facile al mondo della conoscenza, una più semplice e immediata fruizione dello scibile umano nel suo complesso, spogliato di ciò che non è più, ormai, se non una stanca retorica (quella della fatica a tutti costi) non sia un male, anzi.

Sarebbe come dire, altrimenti, che per arrivare davvero a New York da Lisbona bisogna utilizzare il transatlantico, senza ricorrere alla “scorciatoia” dell’aeroplano.


A mio avviso, dunque, la materia prima per un mondo diverso (migliore?) c'è. E non chiederà il nostro permesso, prima di arrivare. Questo perché non tocca a noi darlo.


Quello che ci tocca, è fare in modo che questo mondo possa accadere.


E la politica, su questo, non può più tirarsi indietro.

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